L’ematologia crede nelle terapie mirate (target therapy). Ha tutte le ragioni per farlo, dato che pazienti considerati incurabili fino agli anni Duemila, come quelli affetti da leucemia mieloide cronica, oggi hanno un’aspettativa di vita normale proprio grazie alla scoperta di farmaci mirati. Per questo il numero di molecole studiate per il trattamento della leucemia mieloide acuta negli ultimi vent’anni è quasi quadruplicato. I risultati, però, non sono stati quelli sperati: le armi a disposizione degli ematologi sono aumentate, ma la sopravvivenza dei pazienti è rimasta bassa.
Un gruppo di ricercatori olandesi ha condotto una revisione, pubblicata sulla rivista scientifica Leukemia del gruppo Nature, degli oltre 390 studi svolti dal 2000 al 2020 sulle terapie mirate contro la leucemia mieloide acuta: precisamente 167 gli agenti molecolari analizzati, diretti verso 96 differenti bersagli, di cui solo 8 sono stati approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) americana. Di questi, 3 non hanno ancora dimostrato benefici in termini di sopravvivenza generale. “Un bilancio negativo” – commenta Marco Vignetti, presidente della Fondazione GIMEMA – “alcune target therapy sono promettenti, come il venetoclax, ma il gold standard per la cura della leucemia mieloide acuta è ancora quello di trent’anni fa: chemioterapia e, se possibile, trapianto di cellule staminali”.
Come mai la ricerca è così fiduciosa nei confronti della target therapy?
“Da una parte per i successi riscontrati nella cura di altre leucemie, come la mieloide cronica, la linfoblastica acuta e la linfatica cronica, oggi trattabili con farmaci a bersaglio molecolare. Dall’altra parte perché la leucemia mieloide acuta si esprime con numerose mutazioni genetiche e quindi gli scienziati hanno ipotizzato che con un ventaglio di bersagli così ampio sarebbe stato possibile scoprire altrettante armi. Invece, l’eterogeneità della leucemia mieloide acuta è proprio la sua forza: la target therapy può agire contro una mutazione, ma la cellula leucemica utilizza altre vie metaboliche per sopravvivere”.
Che vantaggi ha la target therapy?
“I farmaci a bersaglio molecolare sono meno tossici. A differenza della chemioterapia, non colpiscono le cellule sane, ma solo quelle leucemiche. Questo ha un grande valore se si pensa che, per i loro effetti collaterali, i chemioterapici non possono essere somministrati a pazienti anziani. Inoltre, essendo una terapia mirata, si presuppone vada a caccia delle cellule malate più nascoste, in genere non intercettate dallo spettro chemioterapico”.
Gli autori della pubblicazione su Leukemia sottolineano che nessuno studio, tra quelli condotti sui farmaci approvati dall’FDA, ha valutato la qualità di vita del paziente. Perché, invece, è importante farlo?
“Aiuta a capire sia come un nuovo farmaco impatta sulla quotidianità di un paziente; sia, attraverso indagini e questionari, qual è il suo stato di salute durante la terapia. Dato che le ricerche non hanno ancora scoperto una target therapy capace di cambiare la storia della leucemia mieloide acuta in termini di sopravvivenza, per noi ematologi è importante sapere se un farmaco, nonostante non allunghi la vita, almeno ne migliori la qualità. Sarebbe una ragione valida per prescriverlo”.
La ricerca indipendente può fare qualcosa in questo senso?
“Sì perché inserisce i nuovi farmaci in protocolli terapeutici più ‘reali’, efficaci per valutare aspetti non esplorati dalla ricerca dell’azienda farmaceutica. Tra cui anche la qualità di vita. Fondazione GIMEMA ha in corso tre studi di valutazione delle molecole target therapy, da sole o in combinazione con chemioterapici. Il nostro contributo è quello di portare farmaci innovativi alla popolazione generale e alle sue nicchie, quindi pazienti rari o con caratteristiche particolari. La collaborazione con le aziende farmaceutiche è alta: non c’è contrapposizione tra i due metodi di ricerca, hanno entrambi la loro importanza e permettono uno scambio prezioso di informazioni”.
Gli autori concludono dicendo che, visti gli insuccessi nel campo delle terapie mirate, in futuro la ricerca non dovrebbe trascurare le terapie tradizionali.
“È possibile che i farmaci a bersaglio molecolare non siano il trattamento più adatto per curare la leucemia mieloide acuta. È importante capirlo, soprattutto per non impegnare (e sprecare) troppo tempo e risorse economiche in unico campo. Si potrebbe investire di più nell’immunoterapia e riprendere la ricerca sui chemioterapici o sui farmaci con meccanismi d’azione analoghi alla chemioterapia che oggi, forse, gli scienziati sarebbero in grado di realizzare con minore tossicità”.