Sono stati trattati con il rituximab 33 pazienti con leucemia a cellule capellute in recidiva, per i quali non erano disponibili terapie alternative. La risposta al farmaco, in alcuni casi molto positiva, consentirà di definire importanti indicazioni sul suo futuro utilizzo.
Un gruppo di pazienti, in cura presso l’IRCSS Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna tra il 1999 e il 2019, con leucemia a cellule capellute (HCL) non poteva ricevere analoghi di farmaci antitumorali purinici di prima linea a causa di determinate caratteristiche della malattia. Inoltre, non si potevano utilizzare farmaci più innovativi e specifici, perché non ancora approvati dagli enti regolatori statunitensi ed europei. “Abbiamo deciso di trattare questi pazienti con l’anticorpo monoclonale rituximab, utilizzato comunemente per le neoplasie ematologiche. Nel nostro Paese, il farmaco è in uso da oltre venti anni”, commenta Alessandro Broccoli, ricercatore presso l’IRCCS di Bologna e primo autore dello studio pubblicato sulla rivista Blood Advances. “Inoltre da una decina di anni sono disponibili in commercio anche i farmaci biosimilari, che hanno permesso di abbatterne i costi”.
La HCL è una forma di leucemia cronica che determina una marcata riduzione di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine a vantaggio di un tipo di globuli bianchi, linfociti B, che vanno incontro a una iperproduzione, provocando un accumulo nell’organismo. In linea generale, i pazienti con ricadute da HCL ricevono gli analoghi purinici soltanto se sono passati almeno due anni dal trattamento precedente, se il midollo osseo non presenta un ridotto numero di cellule rispetto al normale (ipocellulare) e non è interessato in modo esteso dalla malattia. “Altrimenti la terapia rischia di diventare molto tossica” – afferma il ricercatore – “e per questi casi non sono disponibili molte alternative”. A 33 pazienti con questo tipo di tumore, il gruppo di clinici e ricercatori ha optato per somministrare il rituximab una volta alla settimana per quattro settimane consecutive. Sono così stati somministrati 39 cicli di trattamento; 4 pazienti hanno ricevuto il farmaco due volte, un paziente tre volte.
Il tasso di risposta complessivo è stato intorno al 72%: risposta completa nel 28,2% dei casi, parziale nel 23,1% e minima nel 20,5%.
“È rilevante sottolineare quanto la risposta vari a seconda della linea di trattamento in cui si trova il paziente”, commenta Alessandro Broccoli. Per esempio, “il rituximab ha dimostrato di funzionare bene come seconda linea terapeutica, come dimostrato dal 64% di pazienti che non ha più avuto bisogno di ulteriori cure”. In generale, il 50% dei casi trattati non ha necessitato di ulteriori trattamenti nei 3 anni successivi.
Su 5 pazienti a cui il farmaco è stato somministrato più volte, invece, il rituximab non si è rivelato efficace. “Considerando che il rituximab colpisce le cellule leucemiche che esprimono in superficie CD20, questo effetto potrebbe essere legato a una ridotta espressione (down-regolazione) dell’antigene”, commenta Alessandro Broccoli, ammettendo la necessità di approfondire la questione.
Questi dati ottenuti su un campione molto ampio per una malattia rara e con un follow-up così lungo, forniscono indicazioni utili su come e quando somministrare il rituximab in specifici pazienti con recidiva da HCL.
“Sebbene datata, questa cura trova ancora uno spazio in selezionati contesti. Infatti, per questi casi esistono farmaci migliori, ma sono ancora lontani dal ricevere, da parte degli enti regolatori, le autorizzazioni necessarie per entrare in commercio e nella pratica clinica”, osserva Alessandro Broccoli:
“A essere sincero alcuni di essi potrebbero non essere approvati nemmeno in futuro per questo tipo di malattia”. Nell’attesa- e speranza - che qualcosa cambi, diventa quindi cruciale approfondire lo studio di farmaci già testati, validi e semplici da usare, come il rituximab.