L’approvazione della terapia genica per l’emofilia A ha aperto nuove prospettive terapeutiche, riducendo la necessità di infusioni ripetute di fattore VIII. Ma l’esperienza clinica ha evidenziato alcuni elementi da tenere in considerazione, tra cui il rischio di infiammazione epatica e la progressiva riduzione dei livelli del fattore nel tempo, rendendo indispensabile un attento monitoraggio.

Come per altre malattie causate da mutazioni su un singolo gene, anche per l’emofilia A la terapia genica è stata prima studiata e poi accolta come una possibilità concreta di offrire una cura risolutiva. Tuttavia, l’esperienza clinica ha portato alla luce, nell’arco di breve tempo (l’approvazione da parte dell’EMA nel 2022, e dell’’AIFA nel 2024) la complessità di questa nuova opzione terapeutica. Tra gli aspetti più critici da tenere in considerazione vi è l’effetto sul fegato, che evidenzia la necessità di coinvolgere, nell’approccio alla terapia genica, non solo gli ematologi ma anche gli epatologi.

È proprio con questa prospettiva multidisciplinare che un recente articolo, pubblicato su Blood Advances, firmato da autori e autrici italiani, fornisce un consensus per la pratica clinica della terapia genica per l’emofilia A.

 

Lo screening prima della terapia genica

Secondo i più recenti dati disponibili, sono circa 4.000 le persone in Italia con emofilia A, la forma di malattia caratterizzata dall’insufficiente o assente produzione di fattore VIII. Nelle forme gravi può portare a emorragie spontanee soprattutto a livello di grandi articolazioni e muscoli, sanguinamenti post-operatori e, a lungo termine, un’artrosi grave e precoce delle articolazioni interessate definita artropatia emofilica. Le terapie sviluppate dagli anni ’70 in poi hanno migliorato enormemente il trattamento dell’emofilia. “Ma sono pur sempre terapie che devono essere seguite a vita.

La terapia genica ha rappresentato la prima possibilità di un trattamento singolo con effetti a lungo termine. È la prima approvata, per certi versi pionieristica, e ha rivelato alcuni aspetti importanti da tenere in considerazione”, spiega Cristina Santoro, ematologa del Policlinico Umberto I di Roma e tra le autrici dell’articolo.

Tra questi vi sono i criteri stringenti per l’accesso alla terapia genica. Quest’ultima si basa infatti su un vettore virale basato su adenovirus (AAV) che trasporta all’interno delle cellule epatiche il gene per la produzione del fattore VIII. Tra i requisiti essenziali perché il paziente possa sottoporsi alla terapia vi è dunque l’assenza di anticorpi preesistenti contro AAV, per evitare una risposta immunitaria.

“L’altro aspetto critico riguarda il fegato: l’uso di vettori virali per la somministrazione del gene corretto può scatenare una reazione infiammatoria, con un aumento significativo delle transaminasi in quasi il 90% dei pazienti trattati. Questo fenomeno, se non adeguatamente gestito con terapia cortisonica, rischia di compromettere l’efficacia della terapia e danneggiare il fegato”, continua Santoro . “Per questa ragione è fondamentale che i pazienti che accedono alla terapia genica abbiano il fegato in salute e non abbiano infezioni epatiche attive. È anche suggerito di evitare il consumo di alcool almeno da sei mesi prima della terapia e per un periodo prolungato dopo il trattamento”.

Criteri stringenti, appunto, anche senza contare i controlli di laboratorio e di imaging (diagnostica per immagini come ecografia, risonanza magnetica, etc.) richiesti prima della terapia. Non semplici da soddisfare se si considera sia che l’AAV è un virus comune con cui molti adulti sono entrati in contatto nel corso della vita e verso cui sono immunizzati. sia che molte persone con emofilia nate prima degli anni ’70, a causa della terapia trasfusionale, si sono infettate con virus dell’epatite.

Il monitoraggio e le sfide post-terapia

Né le cose si semplificano dopo la terapia genica. “In caso di infiammazione epatica, la possibile progressiva riduzione del fattore VIII può rendere di nuovo necessaria la profilassi”, spiega Santoro. “Per questa ragione, nel nostro articolo abbiamo evidenziato come il monitoraggio post-terapia debba prevedere, per tutto il primo anno, esami settimanali (al massimo ogni due settimane) delle transaminasi. Al primo segnale di aumento dev’essere somministrata la terapia cortisonica (che il paziente deve essere in grado di sostenere, e questo è un altro possibile criterio di esclusione della terapia genica)”. Il monitoraggio dei valori epatici, raccomandano autori e autrici, deve continuare a lungo termine ed essere associato a esami di imaging ogni sei mesi.

“L’impegno richiesto al paziente per accedere alla terapia genica e i possibili limiti di quest’ultima, hanno importati implicazioni etiche per il medico. Infatti, per esempio, non è possibile accedere una seconda volta alla terapia genica, poiché dopo la prima infusione con vettore AAV il paziente si immunizza, quindi una seconda infusione sarebbe resa inefficace dalla presenza di anticorpi”, chiarisce l’ematologa.

E conclude: “In ogni caso, la possibilità di una terapia che renda il paziente libero dalla malattia, anche se solo per un tempo limitato, è un desiderio profondo del paziente stesso che il medico deve tenere presente. Il paziente però deve poter scegliere per sottoporsi con consapevolezza al trattamento; deve essere informato dell’impegno richiesto sia dal punto di vista comportamentale (aderenza al monitoraggio, astensione a lungo termine dall’alcool) sia da quello medico, come gli effetti collaterali della terapia cortisonica prolungata. Un processo decisionale di questa portata richiede quindi un dialogo approfondito, continuo e di piena fiducia tra medico e paziente”.