Ruxolitinib si mostra più efficace del controllo per il contrasto della GVHD acuta.
Ne parliamo con il Prof. Arcese.

Nella cura delle Leucemie una grande speranza terapeutica è affidata al trapianto di cellule staminali che però, a causa dell’intrinseca complessità del trattamento, può presentare alcune serie problematiche. In particolare la comparsa del rigetto, definito anche come malattia del trapianto contro l’ospite (GVHD), può vanificare l’obiettivo di cura. Per contrastare la GVHD nella fase acuta si utilizza una terapia ad alto dosaggio a base di glucocorticoidi, una classe di ormoni steroidei. Può però accadere che questa prima linea di trattamento non risolva il problema e quindi siano necessarie altre opzioni terapeutiche, come una seconda linea di trattamento.

E qui le cose diventano complicate, perché non ci sono evidenze nette che indichino una singola terapia di seconda linea come la più efficace in assoluto.

In questo scenario, la pubblicazione di un articolo dedicato al trattamento di seconda linea contro la GVHD acuta, per di più sul New England Journal of Medicine (NEJM), ha avuto una vasta risonanza.  Nell’articolo gli autori pubblicano i risultati di una sperimentazione clinica randomizzata in cui il ruxolitinib, utilizzato come seconda linea terapeutica, si dimostra più efficace rispetto al gruppo di controllo.

Ruxolitinib è uno dei cosiddetti farmaci intelligenti, un inibitore che modifica la cascata del segnale della famiglia JAK, la quale gioca un ruolo centrale nella differenziazione e nella proliferazione delle cellule mieloidi e linfoidi. Agendo in modo selettivo su alcuni effettori, probabilmente su JAK1-JAK2, riesce quindi a limitare la risposta che il corpo attiva contro il trapianto e quindi favorire la risoluzione della GVHD acuta.

 

Ruxolitinib per la malattia del trapianto contro l’ospite (GVHD).

Prof. William Arcese

Abbiamo intervistato il prof. William Arcese, direttore U.O.C. Trapianto Cellule Staminali del Policlinico Tor Vergata e figura di riferimento internazionale nell’ambito dei trapianti, per capire meglio l’impatto di questo studio nella pratica clinica quotidiana.

 

Professore, parliamo di questo lavoro che sembra essere particolarmente importante dal punto di vista scientifico, anche per la sua pubblicazione su un giornale importante come NEJM

La pubblicazione su Nejm è certamente il segno di un articolo scientificamente rilevante, in più l’articolo tocca un settore in cui, da ormai 30 anni, non si riesce ad avere un riferimento unico per il trattamento di seconda linea dei pazienti trapiantati. Detto questo, lo considero un primo passo verso il futuro piuttosto che una indicazione definitiva.


In che senso? Può spiegarci meglio?

Questo articolo ha un grosso limite rappresentato dal disegno dello studio. Sebbene io comprenda bene la motivazione, il gruppo di controllo è costituito da pazienti che hanno ricevuto almeno 9 linee di terapie diverse. Inoltre queste 9 terapie diverse si introducono in una popolazione molto varia, con tipologie di trapianto differenti e con una ulteriore, e numerosa, aggiunta di variabili. Alla luce di tutto questo diventa difficile dargli una credibilità definitiva.


Perché questo?

Questo deriva da uno stato di necessità che io capisco bene, dalla “real life”. Ad oggi infatti ognuno di noi, nel suo centro, adotta la linea terapeutica verso cui è più confidente. Purtroppo non abbiamo dati che ci inducano a preferire inequivocabilmente una determinata linea terapeutica rispetto alle altre, si valutano vantaggi e svantaggi di ogni terapia. Ad esempio da noi, al Policlinico di Tor Vergata, in seconda linea utilizziamo l’infliximab (un anticorpo monoclonale) di cui siamo più che soddisfatti come risultati.


Ed ecco spiegata, quindi , la considerazione delle nove linee di trattamento

Certo, ma a questo si aggiunge un secondo problema: la tempistica in cui si impiega questa seconda linea. Tutte queste sfumature, che fanno parte dell’osservazione diretta e dell’esperienza del medico, lasciano valutare con le dovute cautele i dati.


Ma la risposta che viene riportata sembra positiva? Non è così?

La risposta è certamente positiva, tutta a vantaggio del Ruxolitinib rispetto al braccio di controllo. Ma facendo i conti finali, si vede che sia il tasso di mortalità che le cause di mortalità sono sovrapponibili. Quindi le curve effettivamente impressionano positivamente, una risposta è evidente, ma questo non sembra tradursi in un risultato concreto, almeno allo stato attuale.


Quindi non abbiamo indicazioni chiaramente positive?

C’è un aspetto che sembrerebbe positivo poiché le morti legate alla progressione di malattia, qualunque essa sia, sono uguali. Leggendo tra le righe, ed interpretando i dati, sembrerebbe che il ruxolitinib aumenti la risposta (graft versus host) senza impedire l’effetto immunoterapeutico del trapianto (graft versus leukemia). Ma questa è una mia interpretazione, si dovrebbero produrre dati al riguardo.


Queste obiezioni potrebbero essere risolte con studi supplementari?

Questa è l’indicazione che offre questo lavoro. Idealmente, sarà necessario lavorare per confrontare i singoli trattamenti contro questo ruxolitinib. La maggiore perplessità di questo studio è proprio il confronto di 1 trattamento contro 9. Ovviamente è anche molto difficile disegnare uno studio in cui un singolo centro possa avere i pazienti che servono per dare una risposta statisticamente certa.


Come al solito nulla è banale in medicina ma, nonostante tutto, sembra che si sia aperta una strada importante.

Certamente. Nel complesso i risultati sono positivi e aprono alla possibilità di sviluppare ulteriori studi, più precisi, dove si possano confrontare le singole terapie. Speriamo che questo possa avvenire in tempi rapidi.