In un recente numero dell’American Journal of Hematology è stato pubblicato lo studio di un gruppo di ricerca guidato da Nico Gagelmann che ha valutato l’efficacia della radioterapia prima del trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche in pazienti affetti da mielofibrosi.

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche, nonostante rappresenti l’unica opzione terapeutica curativa per la mielofibrosi, rimane piuttosto impegnativo e, a causa dell’elevato tasso di mortalità, molti ematologi sono spesso riluttanti a consigliarlo ai propri pazienti. La splenomegalia (ingrossamento della milza) massiva e resistente ai farmaci costituisce spesso un motivo per procedere con il trapianto.

“Tuttavia, la presenza di una splenomegalia massiva al momento del trapianto rappresenta un fattore di rischio per l’esito globale del trapianto in quanto aumenta il rischio di fallimento della procedura trapiantologica (graft failure, poor graft function) e di recidiva post trapianto”, commenta la Maria Chiara Finazzi, ematologa dell’ospedale ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e prima autrice di un editoriale sullo studio di Gagelmann, pubblicato sulla stessa rivista.

In generale, un approccio farmacologico con inibitori di JAK1/2 è di solito la prima opzione terapeutica per ridurre le dimensioni della milza. Tuttavia, esiste una consistente percentuale di pazienti che non sono eleggibili, o che non rispondono, a questo trattamento.

Come ridurre, dunque, le dimensioni della milza per questa coorte di pazienti? Le alternative ad oggi disponibili sono due: da un lato la splenectomia, asportazione della milza, che oggi può essere eseguita in modo sicuro con un basso tasso di complicanze; dall’altro la radioterapia, o irradiazione splenica (della cui efficacia e sicurezza, fino a poco tempo fa, erano disponibili poche evidenze, ottenute tramite studi retrospettivi effettuati su un numero esiguo di pazienti).

Proprio il nuovo studio di Gagelmann e colleghi che ha riportato i risultati dell’irradiazione della milza somministrata in un periodo di tempo relativamente breve prima del trapianto (3 mesi). Dallo studio emerge che è possibile ottenere una riduzione considerevole (5 cm in media) del volume splenico; la procedura è ben tollerata da parte dei pazienti, comportando unicamente una tossicità di tipo ematologico (in particolare, piastrinopenia).

Inoltre, per la prima volta, è stata utilizzata una strategia di “propensity score matching”, un metodo statistico che consente di bilanciare due gruppi di pazienti con caratteristiche iniziali differenti. La coorte di pazienti che sono stati sottoposti a radioterapia sono stati confrontati con un gruppo sottoposto a splenectomia, o a trapianto senza alcun tipo di trattamento preliminare. Questo confronto suggerisce che l’irradiazione splenica riduce il rischio di ricaduta post trapianto rispetto alla splenectomia.

Nonostante l’importanza di questi nuovi dati, rimangono aperte diverse questioni: alcuni dati presenti nello studio sembrano suggerire che l’irradiazione splenica potrebbe essere l’approccio ideale per i pazienti con splenomegalia moderata; nei casi invece in cui l’ingrossamento della milza è più importante sembra che l’opzione terapeutica migliore resti la splenectomia.

La splenectomia ha inoltre la potenzialità di migliorare i quadri ematologici tipici di questi pazienti, caratterizzati da grave anemia e piastrinopenia, mentre la radioterapia splenica rimane più problematica in quanto comporta un peggioramento delle citopenie.

Infine, la dose e i frazionamenti ottimali della radioterapia restano da chiarire, cercando di realizzare delle linee guida ad hoc; lo studio citato ha riportato un range di dosi e di numero di somministrazioni eterogeneo. Ciononostante, fatta salva la necessità di nuove ricerche che possano ulteriormente chiarire pro e contro dei diversi approcci, e quella di valutare caso per caso (prendendo in considerazione diverse variabili, tra cui la comorbidità, le dimensioni della milza, la presenza o meno di anemia grave, etc.), lo studio di Gagelmann contribuisce al miglioramento delle conoscenze riguardanti i complessi quadri clinici dei pazienti affetti da mielofibrosi, indicando un’opzione terapeutica alternativa per ridurre le dimensioni della milza prima del trapianto di cellule staminali ematopoietiche.

“L’esito del trapianto di cellule staminali del sangue nel paziente con mielofibrosi è strettamente correlato a tre fattori: la corretta selezione dei pazienti da candidare al trapianto, il giusto timing (evitando un invio al trapianto troppo avanzato) e infine un’attenta valutazione e risoluzione dei fattori che possono incidere sul post-trapianto, tra cui in primis la splenomegalia – commenta ancora la Dr.ssa Finazzi –

Questo studio è importante in quanto amplia le opzioni terapeutiche disponibili per preparare al meglio il paziente con mielofibrosi candidato a trapianto allogenico, permettendo una personalizzazione del trattamento sulla base delle singole caratteristiche di ogni paziente”.

 

 

Lo studio di Gagelmann e colleghi è disponibile qui: https://doi.org/10.1002/ajh.27252

L’editoriale è invece consultabile a questo link: https://doi.org/10.1002/ajh.27292