Uno studio retrospettivo, promosso dall’istituto Seràgnoli di Bologna in collaborazione con 24 centri ematologici, evidenzia l’efficacia di un secondo ciclo terapeutico di Ruxolitinib nel migliorare i sintomi e la prognosi della mielofibrosi.
Dopo una prima sospensione di Ruxolitinib, il farmaco (inibitore del gene JAK) di prima scelta nel trattamento della mielofibrosi, un nuovo ciclo di somministrazione può favorire la ricomparsa degli effetti positivi sui pazienti. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scietifica Cancer.
La mielofibrosi è una patologia del midollo osseo che provoca alterazione morfologica dei globuli rossi, anemia e ingrossamento della milza. Ruxolitinib mostra ampia efficacia nel trattamento dei sintomi e, in generale, della prognosi.
Circa il 50% dei pazienti a cui viene somministrato, tuttavia, cessa di farne uso nel corso di tre anni, a causa di tossicità oppure, in molti casi, di resistenza al farmaco con conseguente perdita di efficacia terapeutica.
La sospensione implica quindi una prognosi scarsa, come scarse sono, attualmente, le terapie alternative. La necessità di trovare soluzioni diverse dal Ruxolitinib ha dato l’avvio a studi su altri farmaci JAK inibitori, molti dei quali ancora in corso.
“Fedratinib – spiega Francesca Palandri, prima autrice dello studio – sarà il farmaco di più immediata disponibilità nella pratica clinica, però solo entro il 2022”. Benché uno studio del 2018 avesse già evidenziato l’efficacia di un nuovo ciclo di somministrazione di Ruxolitinib dopo una prima sospensione, finora non erano state approfondite le dinamiche cliniche relative a questa procedura, né i risultati terapeutici.
L’analisi in questione si è quindi focalizzata su un gruppo di 209 pazienti, 60 dei quali avevano ricevuto una nuova somministrazione di Ruxolitinib dopo la prima sospensione, i restanti 159 ne avevano invece cessato definitivamente l’assunzione. La ri-somministrazione di Ruxolitinib è stata abbastanza comune dopo la sua prima sospensione: è avvenuta nel 30% circa dei pazienti, la maggior parte dei quali avevano sospeso la somministrazione a causa di tossicità. Nell’altro gruppo, invece, il farmaco è stato definitivamente sospeso soprattutto a causa di resistenza al farmaco. “Tali evidenze – continua Palandri – mostrano quindi che i pazienti tendono a riassumere il farmaco se la ragione della prima sospensione è stata la tossicità e non la resistenza”.
Il 50% per cento dei pazienti a cui è stata proposta la ri-somministrazione ha mostrato effetti postivi sui sintomi e un tasso di sopravvivenza decisamente più lungo.
Infatti i dati mostrano una sopravvivenza media di 41,1 mesi per i pazienti che hanno assunto nuovamente Ruxolitinib e di soli 23,7 mesi per coloro che invece ne hanno cessato l’uso.
Nonostante il 50% dei pazienti che hanno assunto il farmaco una seconda volta abbia poi definitivamente cessato di farne uso, a 2 anni di distanza, la ri-somministrazione è consigliabile. “Certamente si tratta di un’efficacia parziale, ma è comunque molto significativa. Attraverso le altre terapie sperimentali i miglioramenti si riscontrano solo nel 30% dei pazienti”, nota Palandri. “È vero anche che si tratta di uno studio retrospettivo, per cui la decisione sulle ri-somministrazione si è basata sull’esperienza clinica e non su una programmazione in anticipo. Tuttavia, considerata la rarità della mielofibrosi e il fatto che solo una piccola parte di pazienti accede al farmaco, avere ottenuto dati su un numero così alto di pazienti è un risultato molto rilevante”. Nel prossimo futuro, i ricercatori dovranno dunque valutare ulteriori risultati clinici, real life evidence, sulla ri-somministrazione di Ruxolitinib alla luce delle nuove terapie che saranno a disposizione.