L’interferone è un veterano nella battaglia contro la leucemia a cellule capellute. Nel tempo è stato messo relativamente da parte, prescritto solo in specifici casi. Un recente studio, pubblicato sul British Journal of Hematology, dimostra che l’interferone non è da meno alle nuove terapie in quei pazienti che, per svariati motivi, non possono più essere sottoposti a chemioterapia.
L’interferone è stato il primo farmaco, ormai venti-trent’anni fa, a dimostrarsi attivo nei confronti della leucemia a cellule capellute. Poi è stato sostituito da una terapia a base di chemioterapici che si sono dimostrati più efficaci e hanno permesso di raggiungere nella quasi totalità dei casi una remissione completa della patologia, anche sul lungo periodo.
Lo studio
“L’interferone è una sostanza già presente naturalmente nel corpo umano”, spiega Alessandro Pulsoni, ideatore dello studio e professore al dipartimento di Medicina traslazionale e di precisione all’Università Sapienza di Roma. “Si tratta di una citochina (una proteina) prodotta da diverse cellule dell’organismo che somministrata a dosaggi terapeutici ha effetti curativi perché stimola il sistema immunitario del paziente contro la leucemia”.
Quello di Pulsoni e colleghi è uno studio retrospettivo: i ricercatori hanno analizzato una mole di circa 30 anni di dati provenienti dalle cartelle cliniche di 74 pazienti, divisi in tre gruppi.
Un gruppo formato da over 65 che avevano ricevuto l’interferone come prima opzione terapeutica; un secondo formato da over 65 con altre malattie o da donne che desideravano una gravidanza, trattati in prima linea con interferone; e il terzo da pazienti resistenti alla chemioterapia o recidivanti, a cui è stato prescritto l’interferone come seconda linea di trattamento.
Pregi e difetti dell’interferone
A differenza della chemioterapia, l’interferone ha lo svantaggio di dover essere assunto in modo continuativo (con una puntura, due-tre volte alla settimana, per diversi mesi), ma “nessuno studio aveva indagato i suoi effetti sul lungo periodo prima di noi”, continua il ricercatore.
“È stato sorprendente rilevare che, anche somministrato per anni e a dosaggi progressivamente ridotti, ha permesso di tenere la malattia quiescente nella gran parte dei pazienti, senza effetti collaterali invalidanti. La sopravvivenza libera da progressione a 5 anni è stata, rispettivamente nei tre gruppi, del 95, 68 e 96 per cento”.
I bassi effetti collaterali del farmaco biologico lo rendono particolarmente adatto alla tipologia di pazienti analizzata: anziani che hanno un limite nel tollerare le conseguenze della chemioterapia e persone con altre patologie, che possono risentirne in modo particolare.
Poco prodotto dalle case farmaceutiche
L’interferone rimane un’opzione valida per pazienti selezionati con leucemia a cellule capellute. “Il problema – evidenzia Pulsoni – è che la molecola specifica per la cura di questa malattia, l’alfa-2b, si fatica a trovare sul mercato perché poco richiesta dai medici e quindi sottoprodotta dalle case farmaceutiche, che in molti casi hanno deciso di cessarne la produzione per problemi di prezzo”.
Le terapie di domani
Se l’interferone rappresenta la frontiera terapeutica più antica della leucemia a cellule capellute, farmaci come l’anticorpo monoclonale rituximab e medicinali diretti contro specifiche molecole presenti sulla superficie delle cellule tumorali sono il futuro. “Sono allo studio anche farmaci che agiscono sul target genetico (BRAF) responsabile della malattia e ne inibiscono la proliferazione” conclude Pulsoni. “Sono ancora in fase di sperimentazione, quindi non ancora registrati per la prescrizione, ma siamo fiduciosi che lo siano presto”.