La scoperta del fattore Rh rappresentò un enorme passo avanti per gli studi sulla trasfusione di sangue, oltre che per la collaborazione internazionale fra ricercatori e la standardizzazione delle procedure

Il sistema AB0 (a, b, zero) è solo uno dei 38 sistemi di gruppi sanguigni umani. Questi vengono classificati tramite la presenza o assenza di antigeni sulla superficie dei globuli rossi e, a seconda del tipo di antigene preso in considerazione (proteine, lipidi, glicoproteine o carboidrati), vengono categorizzati in uno dei sistemi. Esiste, ad esempio, il sistema Lewis (LE) che considera la presenza di un carboidrato sulla superficie del globulo rosso: il fucosio. Il sistema MNS si basa, invece, sulla presenza di alcune glicoforine: A e B. Queste sono proteine di membrana, che formano legami glicosidici con residui zuccherini al di fuori della membrana cellulare.

“La genetica dei gruppi sanguigni e la loro classificazione in sistemi ha consentito di approfondire la genetica delle popolazioni umane in maniera più precisa, ad esempio, per trattare i lignaggi dei gruppi umani.

Il genetista Cavalli-Sforza lavorò proprio a tal riguardo sulla ricostruzione filogenetica delle popolazioni e sulla loro struttura evolutiva grazie alle ricerche sui gruppi sanguigni e i loro sistemi”, spiega Mauro Capocci, docente di storia della scienza e della medicina all’Università di Pisa.

Fra i diversi sistemi sicuramente il sistema AB0 è il più conosciuto.
Con AB0 si indica la presenza o l’assenza degli antigeni A e B sulla membrana plasmatica degli eritrociti umani, unico sistema conosciuto (insieme al sistema MNS) fino al 1937, anno in cui Karl Landsteiner e Alexander Wiener dimostrarono la presenza sui globuli rossi umani di un ulteriore antigene proteico: il fattore Rh.

“La scoperta del fattore Rh – continua Capocci – ha significato un enorme passo avanti per gli studi sulla trasfusione di sangue e, in generale, è stata una tappa significativa per la collaborazione internazionale fra ricercatori e la standardizzazione delle procedure”.

Prima di parlare del fattore Rh, però, bisogna fare un passo indietro per capire qual è stato il percorso e l’ambiente dove ha avuto luogo. I primi studi di Landsteiner sulla batteriologia e sierologia iniziarono dopo il 1891, quando lavorò per diversi laboratori, tra cui quello del premio Nobel per la chimica Emil Fischer. Studiò i meccanismi dell’immunità umana già nel 1896, quando divenne assistente del batteriologo austriaco Max von Gruber, all’Istituto d’Igiene di Vienna. Importante fu il suo primo contributo alla fisiologia quando, nel 1900, pubblicò un saggio sull’agglutinazione del sangue.

Alexander Wiener e il fattore Rh- Fondazione GIMEMA

Alexander Wiener

A partire dal 1923 si trasferì in America dove lavorò per il Rockefeller Institute for Medical Research di New York e conobbe Alexander Wiener. Quest’ultimo aveva lavorato per lungo tempo sui gruppi sanguigni al Brooklyn Jewish Hospital così che, incontrando Landsteiner, potè unire le proprie conoscenze con quelle di uno dei principali luminari in ambito immunologico. Uno dei frutti più importanti di questa collaborazione fu evidente nel 1937, quando individuarono il fattore Rh senza però riconoscere la sua importanza. La scoperta e l’ipotesi non ebbero importanti ripercussioni fino al 1940, anno in cui Karl Landsteiner e Alexander Wiener capirono l’enorme importanza clinica della scoperta.

“Oltre all’importanza clinica legata a una maggior sicurezza nelle trasfusioni – aggiunge Capocci – vi fu un approfondimento del fenomeno dell’eritroblastosi fetale o malattia emolitica del neonato, che non era ancora molto chiaro all’epoca. Questa anemia emolitica è causata dalla trasmissione degli anticorpi materni, attraverso la placenta, contro i globuli rossi del feto. Questa patologia è solitamente causata da un’incompatibilità tra i gruppi sanguigni della madre e del feto quando una madre Rh-negativa concepisce un feto Rh-positivo”.

Con fattore Rh si identifica, in particolare modo, una proteina presente sulla membrana dei globuli rossi, l’antigene D. Il nome Rh deriva dalle scimmie rhesus (Macaca mulatta), primati della famiglia dei cercopitecoidi utilizzati come soggetti di studio. Il sistema comprende tre antigeni: C, D ed E, ma l’antigene D ha una valenza clinica maggiore rispetto agli altri due. Questo perché il fattore D è il più immunogenico di tutti gli antigeni non A, B e 0 (zero). Vale a dire che, se si è esposti a una singola unità di questo antigene, circa l’80% degli individui produrrà un anticorpo anti-D. Inoltre è presente nell’85% circa della popolazione umana ed è un carattere ereditario dominante. Questo significa che influisce enormemente su numerosi fattori clinici, compresa la probabilità di incompatibilità fra donatore di sangue e ricevente.

Nel sistema, un gene codifica (produce) la proteina RhD e un altro RhC e RhE. Generalmente, i geni contenuti nei cromosomi possiedono diverse loro forme alternative, dette alleli. Questi si presentano in coppie e si definiscono dominanti nel caso in cui influiscano maggiormente nell’espressione di un determinato carattere, recessivi in caso contrario. Il gene che sintetizza la proteina RhD è costituito solo dall’allele D (dominante), e chi lo possiede viene definito Rh positivo. Al contrario, non esiste una nomenclatura ufficiale che riconosce l’allele D recessivo per cui gli individui che non posseggono l’allele D vengono indicati semplicemente con Rh negativo.

Oltre alle ripercussioni sulle pratiche cliniche, la scoperta del fattore Rh ha un significato di grande interesse su scala globale. Infatti, come spiega Mauro Capocci:

“Nell’immediato dopo-guerra la standardizzazione della classificazione dei gruppi sanguigni risulta fondamentale non solo in un’ottica di collaborazione internazionale, indispensabile per gli equilibri geopolitici dell’epoca, ma anche di progresso scientifico. Questa cooperazione ha permesso la nascita di strutture e standard internazionali per le trasfusioni ed è stata un modello utilizzato anche per i trapianti d’organo”.

 

Alexander Wiener, foto via National Library Of Medicine

https://iubmb.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/bmb.2005.494033010425