Le condizioni cliniche dei pazienti affetti da neoplasie mieloproliferative croniche (MPN) guariti dal COVID-19 sono ancora avvolte da un velo di incertezza. Uno studio osservazionale internazionale, pubblicato sulla rivista Blood Cancer Journal del gruppo Nature, indaga gli effetti a lungo termine della malattia.
Fra le diverse sfide che la pandemia ha posto dinanzi ai ricercatori, la mancanza di informazioni e dati statistici è sicuramente fra le più dure. Tiziano Barbui, professore del dipartimento di medicina e chirurgia dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, ha cercato di fare fronte a questa mancanza di dati con uno studio condotto sotto l’egida della Rete Europea per la Leucemia (ELN).
Allo studio hanno partecipato trentotto centri ematologici provenienti da Italia, Spagna, Germania, Francia, Regno Unito e Polonia, che hanno coinvolto pazienti con trombocitemia essenziale, policitemia vera, mielofibrosi pre-fibrotica e mielofibrosi primaria. Queste sono malattie mieloproliferative croniche che si caratterizzano per la proliferazione anomala e neoplastica della cellula staminale mieloide, le cellule da cui si formano globuli rossi, granulociti – particolari globuli bianchi –, monociti e piastrine. A causa di tale alterazione il midollo osseo produce troppi globuli rossi, globuli bianchi o piastrine.
Sebbene la gravità dell’infezione da SARS-Cov-2 sia variabile e si manifesti principalmente come sindrome respiratoria, diversi studi hanno rivelato danni al sistema che si occupa della produzione degli elementi del sangue (sistema ematopoietico) e al tessuto che riveste la superficie interna dei vasi sanguigni (l’endotelio vascolare), sviluppati anche dopo la remissione della malattia. Per questo motivo è fondamentale indagare gli effetti a lungo termine della malattia, specialmente fra gli individui con neoplasie mieloproliferative croniche, soggetti che potrebbero risultare più vulnerabili.
“Considerando un periodo di 60 giorni dopo un’infezione acuta da COVID-19 – spiega Tiziano Barbui – nei pazienti con MPN la mortalità globale supera il 40% dei casi ed è ancora più alta nella mielofibrosi.
La mortalità, dopo la fase acuta della infezione da nuovo coronavirus che causa COVID-19, continua anche dopo il superamento delle fasi più drammatiche della infezione e rende conto di circa il 10% di decessi”.
Fra i più vulnerabili, infatti, troviamo i pazienti affetti da mielofibrosi primaria. Da evidenziare anche l’incidenza di trombosi, rilevata significativamente elevata fra i malati di trombocitemia essenziale. In un monitoraggio dei primi sei mesi dopo l’infezione da COVID-19, i pazienti hanno dimostrato una quasi completa remissione dei principali sintomi: febbre, tosse e dispnea. Anche questo studio ha affermato che la persistenza dei sintomi è più frequente nei pazienti di età superiore ai 60 anni, con presenza di marcatori infiammatori in più della metà dei casi.
Questi risultati suggeriscono un lento recupero dopo la fase acuta dell’infezione, come osservato anche in altri studi su pazienti non affetti da neoplasie mieloproliferative croniche.
Riguardo le principali cause di morte Barbui afferma: “Le cause di morte sono eterogenee e comprendo la trasformazione della malattia MPN in fase acuta, insufficienza multiorgano, trombosi, insufficienza cardiaca. Questo è dovuto al danno causato dal virus e dalla persistenza dello stato iperinfiammatorio”.
Dopo nove mesi sono stati verificati otto decessi, descrivendo una probabilità di morte del 9%. Per quanto riguarda la sopravvivenza senza eventi trombotici e senza sviluppo delle malignità neoplasiche, invece, è stata del 66% fra i pazienti sopravvissuti al COVID. In generale, la possibilità di sviluppare eventi fatali, e non, nei primi sei mesi dopo la remissione dell’infezione è del 40%. Particolare attenzione va posta sulla profilassi con eparina che dovrà tener conto dei rischi emorragici.
Riguardo le raccomandazioni per il trattamento dei pazienti, Barbui suggerisce:
“L’ematologo clinico deve stare in allerta nel periodo post-COVID dei pazienti, la cui durata può essere più lunga di 6 mesi.
Esistono gruppi di MPN a più alto rischio che nella fase cronica hanno dimostrato di possedere un genotipo a rischio, come emerso dalla Next-Generation Sequencing, una tecnologia per il sequenziamento di grandi genomi in breve tempo”.