Si celebra oggi, 20 Ottobre 2020, la giornata mondiale della statistica, iniziativa organizzata dalla Nazioni Unite, alla sua decima edizione, incentrata sulla necessità di avere a disposizione dati aggiornati e affidabili a livello mondiale.
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In Italia, alla giornata mondiale si sovrappone la giornata italiana della statistica, che prevede un evento organizzato dalla Società Italiana di Statistica di cui potete trovare qui il programma.
All’interno del suo ufficio operativo centrale, il Centro dati, la Fondazione GIMEMA ha sempre avuto un’unità dedicata alla biostatistica. Per comprendere meglio quanto questa disciplina sia rilevante nel processo della ricerca clinica, abbiamo intervistato Alfonso Piciocchi, responsabile dell’unità di biostatistica della Fondazione GIMEMA, consulente statistico presso il Dipartimento di Oncologia e Medicina Molecolare dell’Istituto Superiore di Sanità e AIFA Opinion expert in statistics.
Alfonso Piciocchi, biostatistico. Iniziamo a capire cosa significa quel prefisso bio?
Nella ricerca biomedica, per capire se uno studio ha fornito i risultati che mostrino l’efficacia di un nuovo trattamento o il ruolo di una strategia di prevenzione, ma anche per orientarsi tra molte informazioni, occorre saper leggere ed analizzare i dati. Necessaria a tale scopo è la biostatistica, una specializzazione della statistica che si occupa dello sviluppo e dell’applicazione di metodi quantitativi nel contesto dei fenomeni biologici, clinici ed epidemiologici.
Quindi una figura peculiare nell’ambito delle scienze biomediche e biologiche.
Esatto, infatti un esperto in biostatistica dovrebbe essere in grado di muoversi in campi tra loro molto distanti che vanno, ad esempio, dal campionamento di popolazioni vegetali agli aspetti etici e metodologici della ricerca clinica.
Come si arriva a essere un biostatistico?
Per diventare un biostatistico è necessario un percorso formativo piuttosto lungo. Si parte da una laurea almeno triennale in statistica, idealmente seguita da una laurea magistrale con indirizzo in biostatistica e possibilmente perfezionata con un master universitario che completi le capacità professionali o con un dottorato di ricerca che approfondisca le conoscenze e le competenze indirizzandole alla ricerca teorica e applicativa. L’esperienza lavorativa è poi un fattore determinante per acquisire competenze anche più ampie, dalla medicina alla biologia e alla genetica, che sono fondamentali per una più proficua ed efficace collaborazione con le differenti figure professionali coinvolte nella ricerca medica.
Quali sono le principali attività di un biostatistico e quali dovrebbero essere le sue caratteristiche?
La figura del biostatistico, o statistico medico, pur rimanendo poco conosciuta dai non addetti ai lavori, svolge un ruolo indispensabile in tutti i livelli della ricerca biomedica, dalla progettazione dello studio fino alle analisi finali, passando per l’organizzazione dei dati.
Oggi è maturata la consapevolezza che il ruolo del biostatistico è fondamentale sin dalla fase di progettazione di uno studio clinico perché, in funzione degli obiettivi della ricerca, è necessario definire quale tipo di disegno sia più efficiente, quali e quanti soggetti includere, quali variabili misurare e quali metodi di analisi si debbano applicare per rispondere in maniera adeguata ai quesiti posti.
Per svolgere queste attività un biostatistico deve possedere delle solide basi matematiche e statistiche, una buona padronanza degli strumenti informatici ed un livello adeguato di conoscenza del contesto biologico e clinico al quale la biostatistica è applicata, che lo metta in grado di collaborare con esperti del settore.
Possiamo definire il biostatistico anche come un garante dell’accuratezza del dato e dei risultati che ne derivano?
Anche. Non da solo, ovviamente, ma la ricerca ha bisogno sempre più di essere supportata dal punto di vista metodologico-scientifico ed in questo i biostatistici possono essere di sostegno ai medici-ricercatori nell’intento di migliorare la qualità degli studi. Ad esempio, il biostatistico ad oggi è coinvolto sempre più anche nella stesura degli articoli scientifici, affinché i dati siano riportati in modo chiaro e standardizzato.
In periodo di emergenza, focalizzati su tante altre preoccupazioni, si potrebbero allentare alcune attenzioni sugli aspetti metodologici. È realmente possibile farlo?
Voglio sottolineare che, anche in un periodo di emergenza, l’attenzione al metodo e al rigore scientifico deve continuare ad essere prioritaria, perché solo attraverso studi ben pianificati, e altrettanto ben condotti, è possibile acquisire valide conoscenze su una malattia. Nel contesto che stiamo vivendo, ad esempio, questo rigore metodologico ci sta aiutando a comprendere una malattia fino a pochi mesi fa sconosciuta, con la speranza di poter individuare metodi efficaci per la cura e la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV2.
Nella Fondazione GIMEMA esiste una unità di biostatistica, di cui è il responsabile, quali sono le vostre attività?
Al GIMEMA l’unità di biostatistica si occupa del disegno degli studi clinici, sperimentali e osservazionali, dell’elaborazione e applicazione di metodi quantitativi per l’analisi e l’interpretazione statistica dei dati generati dai progetti della fondazione. Si tratta di numerose attività, in continua espansione, che richiedono un importante impegno e il coinvolgimento degli altri cinque colleghi che collaborano con me.
Il campo delle competenze è vasto e spesso difficilmente comprensibile da uno specialista “non statistico”.
Questo può accadere e può avere un impatto sul lavoro. E per questo che oltre alle attività legate alle sperimentazioni cliniche, negli ultimi anni l’unità ha organizzato dei corsi di formazione in statistica biomedica per “non statistici”, utilizzando un approccio più semplice, anche se rigoroso, proprio per favorire e migliorare una corretta interazione tra le diverse figure professionali coinvolte nella ricerca clinica.