In pazienti con leucemia mieloide cronica, lo studio SUSTRENIM sta confrontando la risposta molecolare della terapia con imatinib e nilotinib per comprendere quale è la strategia migliore per interrompere il trattamento. I primi risultati dello studio sono stati presentati all’ultimo congresso dell’EHA.

Uno dei migliori esiti che si possono prospettare a un paziente con leucemia mieloide cronica è interrompere del tutto la cura con inibitori di tirosin-chinasi senza che la malattia progredisca (in inglese Treatment Free Remission, TFR). Perché tale prospettiva sia accessibile al maggior numero di pazienti possibili, è cruciale individuare i trattamenti più adatti a questo scopo. Proprio per questo fine, il gruppo di ricerca GIMEMA sta portando avanti SUSTRENIM, uno studio prospettico volto a confrontare la percentuale di sospensione della terapia con imatinib o nilotinib, due inibitori di tirosin-chinasi. I risultati preliminari del trial sono stati presentati lo scorso giugno al congresso dell’European Hematology Association (EHA) a Madrid, in Spagna.

Il SUSTRENIM trial è partito nel 2016, reclutando 448 pazienti con leucemia mieloide cronica trattati con imatinib o con nilotinib. “Lo studio è stato disegnato ormai tanti anni fa”, racconta Massimo Breccia, professore associato presso l’Università La Sapienza di Roma, che ha partecipato al progetto: “Abbiamo pensato di dare il nilotinib, un farmaco di maggiore potenza e selettività, ai pazienti che manifestavano resistenza a imatinib di prima generazione”.

Seguendo il disegno iniziale, dopo quattro anni di terapia i pazienti hanno potuto sospendere il trattamento soltanto se presentavano una risposta molecolare (Molecular Response, MR) profonda, un indicatore determinante nell’effettuare questa scelta (che rileva la malattia residua a livello molecolare) e sostenuta per almeno un anno.

Nella primavera del 2024, a 18 mesi dall’inizio dell’ultima fase dello studio i risultati hanno mostrato che a sospendere il trattamento sono stati il 37% dei pazienti trattati con imatinib, il 50% con nilotinib e quasi il 13% di coloro che sono passati al nilotinib dopo aver manifestato resistenza a imatinib.

Per quanto riguarda la risposta molecolare dopo la sospensione, i pazienti che hanno assunto il nilotinib sembrano avere una maggiore probabilità di mantenere una risposta molecolare profonda. Infatti, è superiore al 74% per coloro a cui è stato somministrato il nilotinib, sia dall’inizio, sia in un secondo momento, mentre è del 44% per coloro che hanno assunto imatinib.

Tuttavia, “malgrado i risultati siano diversi tra i gruppi di pazienti, questa differenza non è statisticamente significativa,” commenta Massimo Breccia. Per giungere a conclusioni più solide bisognerà attendere la fine dello studio. “È necessario un follow-up più lungo che permetta di osservare i risultati di tutti i pazienti idonei a interrompere la terapia a 12 mesi dalla sospensione”. E conclude il ricercatore: “In questo modo si potrà avere il dato definitivo del reale beneficio di un possibile passaggio da imatinib a nilotinib in caso di resistenza per mantenere la sospensione”.