Quando lo scorso marzo in Italia sono state prese le prime misure di distanziamento sociale, in Cina la pandemia da SARS-CoV-2 era già in corso da diverso tempo. Questa differenza è stata evidente, oltre che nel conteggio giornaliero delle persone infettate, anche nella produzione di studi scientifici.
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Infatti, verso la fine di marzo tutti gli articoli scientifici e gran parte degli studi clinici in corso facevano riferimento a gruppi di ricerca cinesi.
Uno di questi, il 27 marzo, ha pubblicato un’analisi che mostrava una diversa rappresentazione dei gruppi sanguigni nei pazienti infettati, rispetto alla popolazione sana. In particolare, i ricercatori hanno notato una maggiore percentuale di persone con gruppo A e una minore presenza di persone con il gruppo 0. La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo.
L’analisi del gruppo di ricerca cinese viene confermata, un paio di settimane dopo, anche dall’altra parte dell’oceano. I ricercatori della Columbia University pubblicano simili risultati riferiti ad un campione di oltre 1500 persone osservate al New York Presbyterian Hospital. Però, il gruppo americano offre anche una rassicurazione: il gruppo sanguigno A non presenta un maggiore rischio di aggravamento delle condizioni cliniche o di morte.
Siamo ormai ai primi di maggio quando, sul British Journal of Haematology, vengono pubblicati dati riferiti a pazienti provenienti dall’area di Wuhan, epicentro dell’epidemia. Anche in questo caso si conferma la maggiore presenza del gruppo sanguigno A e una sorta di fattore protettivo per il gruppo 0 rispetto all’infezione da SARS-CoV-2.
I ricercatori ricordano anche come questa maggiore predisposizione del gruppo A sia stata già osservata in passato in diverse malattie – SARS, epatite B, HIV ad esempio – e, almeno in questo caso, come questo potrebbe dipendere dagli anticorpi anti-A.
Questi infatti sono potenzialmente in grado di ostacolare l’interazione tra il virus e il recettore che viene utilizzato per infettare la cellula. Ovviamente chi ha il gruppo 0 possiede questi anticorpi anti-A in circolo, e da questo trarrebbe un beneficio.
Che questa interpretazione possa essere effettivamente corretta lo conferma una successiva pubblicazione, in cui gli autori concludono il loro articolo esortando i colleghi a concentrare l’attenzione verso gli anticorpi più che il gruppo sanguigno, che sarebbe solo una caratteristica secondaria del problema, riflesso del probabile meccanismo di infezione prima citato.
Infine, la recentissima pubblicazione sul New England Journal of Medicine – un’analisi genetica effettuata su quasi 2000 pazienti positivi, italiani e spagnoli – conferma il coinvolgimento di una specifica regione del genoma legata anche alla produzione di anticorpi anti-A.
Allo stato attuale, quindi, gli studi fin qui condotti confermano l’esistenza di una sorta di fattore protettivo per il gruppo 0 e di una maggiore possibilità di essere infettati per il gruppo A
già noto per essere più suscettibile a diverse malattie infettive. Al momento però rimane incerto l’effetto biologico che regola questa diversa sensibilità all’infezione da SARS-CoV-2, essendo probabilmente coinvolti alcuni specifici anticorpi (anti- A) o altri meccanismi biologici non ancora identificati.