Un paziente con VEXAS ha risposto in modo positivo al ruxolitinib. Analizzando la risposta molecolare al trattamento, un gruppo di ricercatori dell’Università di Genova ha individuato in JAK2 uno specifico bersaglio molecolare, che suggerisce possibili direzioni di ricerca per lo sviluppo di terapie selettive per questa patologia.
Per una sindrome rara e poco conosciuta come VEXAS, una sindrome rara con manifestazioni ematologiche e autoimmuni, un singolo caso può fare la differenza e indicare una nuova direzione di ricerca. “Al momento non esistono cure specifiche per VEXAS”, spiega Gabriele Zoppoli che ha condotto la ricerca con i suoi colleghi dell’Università di Genova. “È una malattia ‘nuova’, perché è stata individuata per la prima volta soltanto cinque anni fa. Proprio per questo manca ancora la consapevolezza sulla sua esistenza da parte sia dei pazienti sia del personale medico”.
I pochi dati attuali stimano che le alterazioni di VEXAS siano presente in una persona ogni circa 14.000, ma probabilmente sono molti di più. Spesso, infatti, questa patologia viene confusa con altre e non riconosciuta del tutto. “I pazienti arrivano alla diagnosi soltanto dopo aver parlato con numerosi medici e aver provato varie terapie non efficaci”, commenta il ricercatore.
Per la diagnosi bisognerebbe rilevare appositamente la presenza della mutazione del gene UBA1 in un campione di sangue.
In condizioni fisiologiche, questo gene codifica per il complesso del proteasoma ubiquitina che si occupa di degradare le proteine dentro le cellule. Quando UBA1 è alterato, però, il meccanismo viene de-programmato e i monociti producono citochine in eccesso. VEXAS è così associata ad un ampio spettro di sintomi: di tipo infiammatorio, come lesioni cutanee e infiammazioni di occhi o cartilagini, o propri delle patologie ematologiche, tra cui anemia macrocitica e trombocitopenia. Può persino predisporre all’insorgenza di tumori del sangue.
Una terapia specifica per questa patologia richiederebbe di intervenire in modo diretto sulla mutazione UBA1. “Si potrebbero sviluppare tecniche di terapia genica, ma avrebbero bisogno di anni di studi prima di essere messe in pratica”, spiega Zoppoli. Oggi, gli inibitori di JAK, e in particolare il ruxolitinib, sono gli unici medicinali a essere stati testati con buoni risultati in pazienti con VEXAS e una malattia mielodisplastica o mieloproliferativa. In un recente editoriale pubblicato sulla rivista scientifica Britisg Journal of Haematology, Zoppoli e il suo gruppo di ricerca hanno descritto il caso di un paziente di 63 anni con caratteristiche cliniche simili. La sua terapia è iniziata con l’azacitidina che viene somministrata comunemente per la cura delle sindromi mielodisplastiche. L’aggravarsi delle condizioni e la diagnosi di VEXAS hanno portato i medici a somministrare il ruxolitinib al paziente e, dopo due settimane di cura, la malattia ha raggiunto una remissione quasi completa. In seguito, sono insorti citopenia, stanchezza e altri effetti collaterali, e il medicinale è stato sostituito di nuovo con l’azacitidina, con un buon effetto a lungo termine.
“Di fronte a una caso clinico così particolare, abbiamo voluto capire di più sulla risposta molecolare al ruxolitinib”, spiega il ricercatore. “Abbiamo quindi estratto dei campioni di sangue del paziente nel corso del trattamento per analizzare il trascrittoma delle cellule ematiche”. Il ruxolitinib inibisce la via di segnalazione di JAK1 e 2, ma i ricercatori hanno osservato una riduzione significativa soltanto dell’espressione dei trascritti di JAK2.
Anche se si tratta di un solo caso, questo dato indica che un farmaco con un’azione specifica contro JAK2 potrebbe essere più efficace e ridurre gli effetti collaterali, rispetto al ruxolitinib.
Tuttavia, Zoppoli è convinto che per migliorare la cura dei pazienti con VEXAS si debbano anche attuare altre misure. Aumentare la consapevolezza e la conoscenza della VEXAS tra il personale medico è il primo passo per incrementare il numero di diagnosi e creare una casistica consistente. Trovare nuove terapie per una patologia così rara e poco conosciuta è molto difficile se manca una rete di collaborazione tra centri ospedalieri.