Quantità ridotte del farmaco anti-tumorale Bosutinib sono efficaci per il trattamento della leucemia mieloide cronica, lo rivela uno studio coordinato dall’Università di Bologna.
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La dose del farmaco bosutinib utilizzata per il trattamento della leucemia mieloide cronica è 500 mg al giorno, ma possono essere sufficienti 300 mg in pazienti in cui non ha avuto successo un primo trattamento. È quanto emerge dallo studio clinico di fase II GIMEMA CML WP presentato al 25° congresso della European Hematology Association il 12 giugno scorso. Lo studio, effettuato su pazienti ultrasessantenni – quindi più fragili della media – apre la strada a un utilizzo diverso dei farmaci
In genere, i farmaci vengono testati a partire da una dose iniziale prefissata, e poi aggiustati in base a eventuale tossicità o fallimento della terapia. In questo lavoro, invece, i ricercatori sono partiti da dosi basse, aumentandole poi a seconda della risposta fisiologica del paziente per trovare la dose minima efficace.
Nello studio sono stati coinvolti 63 pazienti di età superiore ai 60 anni (età media 73 anni) affetti da leucemia mieloide cronica già sottoposti a un primo trattamento, fallito per intolleranza (nel 63% dei casi) o resistenza (nel 37% dei casi). I pazienti sono stati trattati per due settimane con 200 mg di bosutinib, e successivamente con 300 mg per tre mesi. Dopo i tre mesi, a seconda della risposta dei pazienti, la dose è stata mantenuta a 300 mg o aumentata a 400 mg (in assenza di tossicità). Tutti i partecipanti sono stati seguiti per almeno un anno per valutare la cosiddetta risposta molecolare al trattamento (MR), misura standard per capire a che livello la malattia sia ancora presente.
La leucemia mieloide cronica è caratterizzata da un’anomalia molecolare, la presenza di una molecola chiamata BCR-ABL. La valutazione dell’efficacia del trattamento viene fatta misurando i livelli di BCR-ABL, che indicano il residuo di malattia: più sono diminuiti i livelli di BCR-ABL, più è regredita la malattia. Al momento della diagnosi la MR è 0 (MR0, BCR-ABL al 100%), per salvare la vita del paziente è necessario arrivare a livelli di BCR-ABL inferiori allo 0,1% (MR3). Per prendere in considerazione invece un’interruzione del trattamento bisogna raggiungere i livelli MR4 (<0,01%) o (MR4.5 <0,0032%). Nello studio queste misure sono state utilizzate come parametri per decidere se aumentare o meno la dose del farmaco.
I ricercatori, dopo il trattamento con bosutinib a 200mg per 2 settimane e a 300mg per 3 mesi, hanno misurato la MR nei pazienti a 0, 3, 6 e 12 mesi. Hanno raggiunto la MR3 a 0 mesi il 17% dei pazienti, a 3 mesi il 44%, mentre a 6 mesi il 54% e a 12 mesi il 65% dei malati. Inoltre, a 12 mesi, il 40% dei pazienti ha raggiunto la MR4 e il 19% la MR4.5. Al momento, la maggior parte dei pazienti (il 79%) è ancora in terapia con bosutinib; di questi, l’88% ne assume 300 mg al giorno o meno. I casi di interruzione della terapia sono avvenuti soprattutto per motivi di intolleranza, come nefrotossicità (danni ai reni), mialgia (dolore muscolare) o livelli elevati di transaminasi. In nessun caso si è rilevata una progressione della malattia.
Questi risultati mostrano come, in pazienti anziani sottoposti a un trattamento di seconda linea per leucemia mieloide cronica, basse dosi di bosutnib possono essere molto efficaci e meglio tollerate del trattamento standard.
Per Fausto Castagnetti, primo autore dello studio ed ematologo ricercatore presso l’Università di Bologna, i risultati ottenuti sono importanti perché mostrano come questi farmaci possano essere impiegati a dosi inferiori, strategia che potenzialmente potrebbe essere applicata a tutti i farmaci.
“Lo studio – conclude Castagnetti – apre la strada a un uso diverso dei farmaci che potrebbe ridurre la tossicità dei trattamenti in popolazioni fragili, suggerendo di iniziare la terapia con una posologia più bassa e adattare la dose non solo in base alla tolleranza ma anche all’efficacia”.