Considerato da sempre una sostanza omogenea tra gli individui, chiamato in causa al più per decretare differenze socioculturali (il famoso “sangue blu”), il sangue rimase per buona parte ignoto nella sua composizione sino al 1901: anno in cui il medico austriaco Karl Landsteiner scoprì i gruppi sanguigni.
Annagiulia Gramenzi, ricercatrice in medicina interna e docente di storia della medicina dell’Università di Bologna, ci aiuta a ripercorrere le principali tappe che portarono a questa formidabile scoperta, seguendo la storia delle trasfusioni.
Le prime “somministrazioni” di sangue
“Nel XV secolo, per rimettersi in forze, Marsilio Ficino suggeriva agli anziani di suggere sangue di giovinetti”. In parole semplici – spiega Annagiulia Gramenzi – prima della scoperta della circolazione sanguigna da parte di William Harvey, il sangue veniva somministrato per via orale, sulla base di ipotesi terapeutiche che avevano più a che fare con il folklore e le pratiche magico-religiose, che con la medicina. Ciò a dimostrazione dell’altissimo valore simbolico che il sangue ricopriva all’interno della cultura occidentale pre-scientifica.
I primi tentativi di trasfusione risalgono al 1558 con Girolamo Cardano, ma fu solo a partire dal pionieristico De motu cordis di Harvey (1628), con la dimostrazione di un sistema circolatorio doppio, chiuso e unidirezionale, che entriamo in una nuova fase della storia delle trasfusioni. Gli esperimenti si concentrarono inizialmente su trasfusioni tra animale e animale e solo successivamente tra animale ed essere umano. Quest’ultimi vennero inaugurati alla Corte del Re Sole, dal medico Jean-Baptiste Denys nel 1667.
“Tra i tentativi fatti in Italia bisogna ricordare – evidenzia la studiosa – quelli di Guglielmo Riva (1527-1672), il chirurgo di Papa Clemente IX che a Roma eseguì tre trasfusioni di sangue da agnello a uomo. In quegli anni la trasfusione di sangue si diffuse rapidamente in Europa e il suo uso si estese a malattie diversissime come la follia e le febbri anche se non venne mai utilizzata per le emorragie. Nonostante un largo e crescente uso, gli esiti erano disastrosi e spesso fatali”. Per porre un argine a queste nefaste conseguenze, un editto del Parlamento francese mise un freno alla pratica. “A seguito di questi divieti la trasfusione di sangue cadde nel discredito generale per circa 150 anni”, spiega Gramenzi.
La medicina dovette attendere quindi il 1818 per vedere la prima trasfusione tra esseri umani, a opera dell’ostetrico britannico James Blundell. Nonostante i notevoli progressi in numerosi altri campi medico-sanitari, ancora alla fine dell’Ottocento la trasfusione di sangue non godeva di una buona reputazione scientifica. Non erano per nulla chiare le ragioni di queste violente reazioni.
Landsteiner: la rivoluzione di inizio secolo
La vera rivoluzione avvenne in coincidenza con l’inizio del secolo del progresso: il Novecento. Forte della conoscenza medica accumulata nei secoli, a partire da Harvey e Marcello Malpighi relativa alla circolazione sanguigna, passando per i medici Adolf Creite e Leonard Landois con l’essenziale scoperta dell’agglutinazione dei globuli rossi – raggruppamento in piccole masse di cellule isolate – il futuro Nobel Karl Landsteiner identificò quattro gruppi sanguigni: A, B, AB e 0. La sua scoperta dovette molto alle ricerche condotte in precedenza, in particolare, appunto, al processo di agglutinazione. “Landsteiner iniziò a lavorare come assistente nel 1896 nel laboratorio di Max von Gruber, professore di Igiene a Vienna che aveva descritto il fenomeno dell’agglutinazione batterica, e dimostrò come il siero di alcuni individui normali contenesse sostanze (isoagglutinine) capaci di aggregare gli eritrociti, i globuli rossi, di altri individui.
Mescolando in vitro due gocce di sangue di due soggetti differenti, Landsteiner notò come in alcuni casi i globuli rossi restassero in sospensione perfettamente omogenea, mentre in altri si agglutinassero in grumi evidenti anche ad occhio nudo.
Non solo, ma scoprì anche come questo fenomeno nella specie umana era legato invariabilmente alla distribuzione di anticorpi presenti nel siero e dei relativi antigeni legati ai globuli rossi:
Landsteiner osservò come, a seconda del sangue dell’individuo, si riscontrava la presenza o l’assenza di alcuni antigeni sulla superficie dei globuli rossi. Sviluppando questa osservazione, lo studioso arrivò a comporre delle tabelle di interagglutinazione, classificando i gruppi sanguigni in base agli antigeni A, B e C (poi diventati A, B, 0)”.
Il Nobel e l’ultimo fattore ignoto
“All’epoca però – rivela Gramenzi – la sua scoperta non ebbe la risonanza che meritava. C’era in primo luogo un problema di classificazione e di nomenclatura. Studiosi come Jan Jansky, Noss, Von Dungern e Hirszfeld, che negli anni successivi si occuparono dell’argomento, adottarono ciascuno una diversa terminologia, fatta di gruppi e sottogruppi, creando una gran confusione. Inoltre, per i medici e gli studiosi dell’epoca, non era immediato il collegamento tra il fenomeno dell’agglutinazione descritto da Landsteiner e le reazioni trasfusionali.
Finalmente, nel 1928, si adottò a livello internazionale la nomenclatura ancora oggi in uso per i gruppi sanguigni e le dinamiche osservate da Landsteiner vennero confermate a più riprese”.
A quel punto, riconosciutone il valore straordinario, la scoperta condusse Landsteiner agli onori di Stoccolma, nel 1930. Corre tuttavia l’obbligo di ricordare che nel 1901 Landsteiner non identificò tutti i gruppi sanguigni esistenti: mancava ancora il fattore Rh (Rhesus). “Infatti – continua Gramenzi – nonostante la scoperta dei gruppi sanguigni AB0 e la possibilità di conservare e trasfondere sangue tipizzato, rimaneva una piccola percentuale di reazioni imprevedibili”. Si dovette attendere il 1939 per identificare il fattore Rh, grazie al lavoro di Philip Levine e di Rufus Stetson, e poi il 1940: anno in cui Landsteiner e Alexander Wiener annunciarono la scoperta del fattore prima ignoto.
A 120 anni di distanza è indubbia la rilevanza di Landsteiner nel panorama medico-sanitario contemporaneo: “Virtualmente tutti o quasi tutti gli interventi chirurgici possono complicarsi con emorragie tali da richiedere supporto trasfusionale. Tutte le conoscenze che partono da Harvey e passano per Landsteiner fino ad arrivare a oggi – conclude Gramenzi – hanno portato a un calo significativo dei decessi post-operatori, permettendo oggi di trasfondere il sangue in sicurezza”.