Oggi festeggiamo la Giornata mondiale del donatore di sangue, promossa dall’OMS per sensibilizzare i cittadini del mondo sull’importanza e la necessità della donazione di sangue e di emocomponenti. “Give blood and keep the world beating”: è questo lo slogan scelto per la ricorrenza del 2021, anno in cui l’Italia ospita l’evento celebrativo mondiale. Ma cosa significa, nel concreto della vita di ognuno, “donare il sangue”?
Sembra un gesto banale, un prelievo. In verità, le motivazioni che spingono a donare il sangue possono celare significati culturali molto differenti. Considerarli significa ripensare, almeno parzialmente, le campagne di comunicazione uniformate e dirette al “cittadino esemplare”, ossia europeo e figlio della tradizione occidentale.
Si tratta un gesto gratuito, disinteressato, universale. Quei 450 ml di sangue che con regolare cadenza i donatori cedono ai centri di raccolta denotano il profilo del cittadino esemplare, mosso da spirito filantropico ed egualitario. C’è del vero, ma solo parzialmente.
Come ogni gesto orientato secondo valori, anche la pratica della donazione di sangue varia in base alle motivazioni personali e, soprattutto, alla cultura di appartenenza.
Non per tutti donare il sangue ha le stesse implicazioni morali, culturali e sociali; quindi non per tutti la ragione alla base di questo importantissimo gesto è la medesima. Nonostante le ricerche etnografiche sulla donazione del sangue scarseggino, i loro risultati fanno emergere un quadro davvero ampio.
Dono del sangue tra cittadini immigrati
Un’interessante indagine comparativa emerge da uno studio italiano condotto da Fabio Dei, docente di antropologia culturale all’Università di Pisa, presso i centri AVIS della Regione Toscana. L’analisi si è concentrata sui donatori migranti provenienti da due diversi paesi: Romania e Senegal. I due gruppi, oltre a distinguersi dalla realtà culturale europea della donazione, si sono differenziati in maniera radicale tra loro stessi. Ancora reduci dalle pressioni socioculturali del regime di Ceausescu, il quale promuoveva in massa la donazione di sangue, i donatori rumeni intervistati hanno motivato il gesto in termini di “obbligo di conformità”, comprensibile in un contesto totalitario, e di “benefit”. Stretti tra la percezione di un Paese ospitante che a malapena li tollera e un’esperienza di vita passata stretta tra le briglie della dittatura, lo spazio per la solidarietà è difficile da trovare. Ecco allora che si va a donare sangue perché è garantito un giorno di pausa dal lavoro o perché si è convinti che la sua periodica espulsione sia benefica per la propria salute, che elimini le impurità del corpo.
Discorso opposto, constata Dei, per il gruppo senegalese. I partecipanti hanno mostrato quanto sia importante per loro il concetto di “dono secondo il bisogno”, ossia di solidarietà universalistica e gratuita non in astratto, come promuove l’impostazione europea, ma in seguito a necessità contingenti. Numerosi intervistati avevano infatti donato il sangue almeno una volta in Senegal, non tuttavia in una situazione prevista e premeditata, ma in seguito alla necessità urgente magari espressa da autorità politiche o religiose. Tale modalità di dono “a chiamata”, evidenzia l’antropologo, è caratteristica anche di altri gruppi migranti, come quello marocchino studiato a Torino da Annamaria Fantuzzi. Anche questa impostazione, seppur più solidaristica della precedente, non è sovrapponibile a quella europea. Quest’ultima promuove infatti la costanza della donazione, onde evitare l’alternanza di momenti di scarsità di sangue ad altri di eccessiva abbondanza, e quindi di spreco.
Naturalmente, questi studi hanno sofferto di un campione di soggetti i cui profili socioculturali erano filtrati
a monte dagli effetti delle dinamiche migratorie. Il gruppo dei senegalesi intervistati, ad esempio, era caratterizzato da una quasi esclusiva presenza maschile.
Dono del sangue e spiritualità in India
Se la sfera religiosa esercita un qualche tipo di influenza nel gruppo dei senegalesi considerato da Dei, sembra che in altri casi la spiritualità caratterizzi l’esperienza della donazione di sangue in maniera molto profonda. L’antropologo Jacob Copeman, lavorando sul campo in India, ha scoperto non solo la straordinaria ricchezza valoriale connessa alla donazione di sangue intero, ma anche a quella degli emocomponenti.
Negli indiani sarebbe infatti radicata la convinzione che la donazione di sangue intero sia da “ignoranti e arretrati”, in quanto “ruba il valore d’uso” di una sostanza che, se divisa, potrebbe salvare la vita a più di una persona.
Anche per il donatore gli effetti, in questo caso spirituali, sarebbero maggiormente benefici nel caso della donazione di emocomponenti. “Dalla mia unità singola – commentava un donatore di Chennai a Copeman – saranno curate quattro persone. Quattro persone avranno la vita e io avrò benedizioni da quattro persone”. Questa convinzione è in perfetta sintonia, afferma l’antropologo, con l’induismo: “I crediti spirituali si accumulano non necessariamente dando di più, ma attraverso il corretto allineamento delle stesse pratiche del dare”.
Comunicazione e sensibilizzazione, secondo cultura
Accettare la presenza, radicata e agente, di specifiche concezioni culturali legate alla donazione di sangue non significa solo apprendere interessanti nozioni etnografiche e curiose tradizioni folkloriche.
Prenderne atto significa anche rivedere profondamente i messaggi e le strategie di comunicazione con cui le istituzioni sanitarie invitano indistintamente i cittadini a donare.
Questa considerazione è particolarmente cogente in Paesi a tasso crescente di immigrazione, come l’Italia e l’Europa in generale. Se l’appello ai valori laici, cosmopoliti, frutto della tradizione europea e della rivoluzione francese può avere effetti positivi su donatori la cui cultura è in sintonia con questi principi, non è scontato che lo stesso risultato al di fuori di tali cornici di senso. “Appare chiaro – afferma di nuovo Fabio Dei nella sua analisi sugli immigrati rumeni – quanto poco possa funzionare verso questo gruppo di migranti una promozione alla donazione basata su un’astratta retorica dei valori civici. È la loro stessa biografia a rendere opache queste forme di discorso”.
Stesso gesto, differenti valori. Il dono del sangue, come anche altre forme di dono, è una pratica estremamente ricca di significato culturale. Considerarla come tale è quindi l’unica strada percorribile per istituire una pratica medico-sanitaria che guardi all’individuo nel suo insieme, a partire dalla cornice culturale che attribuisce senso e significato al suo agire. È con questa consapevolezza che la Giornata mondiale del donatore di sangue vuole celebrare un gesto fondamentale, tanto universale quanto ricchissimo di valore particolare.