Covid-19 ha dimostrato l’importanza della ricerca clinica. In Italia il finanziamento pubblico in questo settore è insufficiente. I principali gruppi scientifici italiani che si occupano di sperimentazione chiedono alle istituzioni un tavolo tecnico per discutere le strategie per rilanciare la ricerca clinica in Italia.
Potenziare le infrastrutture digitali per garantire un salto di qualità degli studi, semplificare, armonizzare e velocizzare le procedure per autorizzare nuovi studi e stabilizzare contrattualmente il personale di supporto. Sono le proposte contenute nel documento inviato alle istituzioni da Fondazione GIMEMA, Alleanza contro il cancro (ACC), Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti (FADOI), Federation of Italian cooperative oncology Groups (FICOG) e Gruppo italiano data manager (GIDM). I principali gruppi scientifici chiedono che i finanziamenti messi a disposizione per la sanità dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) siano utilizzati per specifici interventi che riguardano la ricerca clinica.
“La ricerca clinica indipendente ha portato nel corso degli ultimi vent’anni risultati fondamentali nel modo di fare diagnosi e di trattare i pazienti”, ha affermato Marco Vignetti, presidente GIMEMA, durante la conferenza stampa di mercoledì. “Ma per poter utilizzare i cosiddetti farmaci intelligenti in tempi brevi e efficaci, c’è bisogno di una rete di strutture certificate e qualificate su tutto il territorio in grado di fare diagnosi nel giro di 48-72 ore. Se le infrastrutture sono correttamente impostate, queste reti sono in grado di fare ricerca clinica e contemporaneamente raccogliere dati preziosi per ulteriori ricerche”. Il PNRR è un’opportunità importante, considerato che digitalizzazione e innovazione sono due assi strategici. Un’occasione per realizzare gli adeguamenti infrastrutturali necessari a compiere un salto digitale anche nella ricerca clinica.
La missione numero sei del PNRR è quella dedicata alla sanità cui sono destinati oltre 15 miliardi del piano, a cui si aggiungono poi altre risorse. Di questi, 9,6 miliardi vanno al rafforzamento di ricerca, innovazione e digitalizzazione e comprendono anche misure come l’ammodernamento del parco tecnologico ospedaliero, interventi per ospedali sicuri e sostenibili e altre azioni di questo tipo. I finanziamenti diretti alle attività di ricerca si possono calcolare tra 2 e 3 miliardi:
“Ma se tutti i finanziamenti che riguardano digitalizzazione e innovazione in sanità – continua il presidente GIMEMA – saranno davvero destinati agli interventi descritti nel piano, questi possono avere un importante impatto positivo indiretto anche sulla conduzione delle sperimentazioni cliniche. A patto che siano il più possibile omogenei e diffusi a livello nazionale. Solo così si consente al Paese di affrontare in maniera competitiva le sfide e le opportunità del presente e del futuro”.
La ricerca ha esigenze di raccolta e utilizzo dei dati e di trasferimento alla clinica in tempi brevi. “Per raggiungere gli obiettivi comuni – afferma Paolo De Paoli, direttore generale di ACC – è fondamentale costruire reti che collaborino fra loro. Ci vuole un grande sforzo collettivo per superare la frammentazione, informatica e non, delle strutture che non riescono a dialogare tra loro. Dovrebbe essere dato un mandato chiaro sull’importanza della ricerca clinica e sulla necessità di mettere tutto il sistema a regime”.
In Italia, la spesa in ricerca e sviluppo è pari all’1,2% del PIL, mentre la media dei Paesi europei raggiunge il 2%, e la Germania quasi il 3%. Nel 2018, solo 24 milioni e 163mila euro di finanziamento pubblico sono stati erogati dal Ministero della Salute per sostenere le sperimentazioni indipendenti.
“Ma la ricerca è un investimento che fa risparmiare lo Stato, capace di creare ricchezza”, afferma Ruggero De Maria, presidente ACC.
“Senza ricerca accademica non è possibile migliorare le terapie, personalizzarle. La ricerca clinica punta a perfezionare l’appropriatezza delle terapie e ha tutto l’interesse a dare la terapia giusta al paziente per razionalizzare la spesa farmaceutica pubblica. Anche utilizzando i dati raccolti dalle case farmaceutiche”.
Le proposte dei gruppi scientifici riguardano anche aspetti normativi. Le difficoltà a cui va incontro la ricerca indipendente, non sponsorizzata dall’industria, sono molte. Tra il 2018 e il 2019 c’è stata una diminuzione del 4,1% del numero di studi indipendenti sul totale delle sperimentazioni autorizzate: si è passati dal 27,3% nel 2018 al 23,2% nel 2019. “La parola d’ordine deve essere innanzitutto semplificazione”, spiega Carmine Pinto, presidente FICOG.
La pandemia ha imposto l’attivazione rapida di protocolli di studio per affrontare il Covid, mantenendo attive le sperimentazioni in corso su tutte le altre patologie. I tempi di approvazione sono passati da 150 giorni a circa 14. “Un’accelerazione da conservare”, per il presidente FICOG.
Le regole previste dal sistema, fuori dall’emergenza, invece ostacolano gli scienziati. I promotori di ricerca clinica devono seguire procedure e richieste di documentazione eterogenee, che spesso portano alla produzione di documenti diversi ma ridondanti, che ripetono in forma differente lo stesso tipo di carte. “Abbiamo ben presente il peso della documentazione richiesta dall’autorità competente (AIFA o Ministero della Salute) e soprattutto la necessità, per gli studi multicentrici, di ottenere l’autorizzazione di tutti i Comitati Etici territoriali a cui fanno riferimento i centri coinvolti negli studi. Va attuata e migliorata la riforma già prevista per i comitati etici – continua Pinto – e seguita la direzione indicata dal modello nazionale di contratto proposto da AIFA per gli studi clinici no profit, che presentano peculiarità diverse rispetto a quelli finanziati dall’industria”, conclude Carmine Pinto.
L’approvazione della lettera informativa per il paziente e del modulo di consenso rappresenta un passaggio critico del percorso di autorizzazione di uno studio clinico. Fa emergere le differenze fra singoli regolamenti dei comitati etici territoriali.
“Va attuata una riorganizzazione dei comitati etici”, sottolinea Dario Manfellotto, presidente FADOI.
Dai 240 del 1998 si è passati ai 78 comitati etici di oggi, ma la legge Lorenzin (n. 3/2018) chiedeva di ridurli a 40. “I comitati etici chiedono frequentemente di apportare correzioni e integrazioni ai moduli di consenso informato e alla lettera informativa. Una richiesta che diventa onerosa anche in termini di tempo, in particolare per le sperimentazioni multicentriche. Va valutata positivamente quindi la proposta del Centro di coordinamento nazionale dei comitati etici territoriali che propone specifiche linee di indirizzo per la raccolta del consenso informato, che devono essere applicate in maniera uniforme a livello nazionale. Bisogna poi arrivare ad avere una procedura che prevede un unico parere da un unico comitato etico”.
“L’iter autorizzativo degli studi comprende anche il coinvolgimento delle amministrazioni ospedaliere”, spiega Gualberto Gussoni, coordinatore scientifico del centro studi della Fondazione FADOI. “Purtroppo questi passaggi risultano spesso più farraginosi e lenti di quelli che coinvolgono il comitato etico.
Solo in poche realtà gli obiettivi di mandato dei direttori generali degli ospedali comprendono la promozione delle sperimentazioni; come negli IRCCS, le strutture che includono la ricerca fra i propri compiti costitutivi. Questa situazione rispecchia una generale scarsa attenzione delle amministrazioni ospedaliere alla ricerca clinica che potrebbe essere colmata inserendo tra gli obiettivi di valutazione degli ospedali anche la ricerca clinica condotta da quella struttura”.
Un altro problema è il personale. “La gestione delle sperimentazioni cliniche sta diventando sempre più complessa, tanto da richiedere competenze specifiche e multidisciplinari”, afferma Celeste Cagnazzo, presidente GIDM.
“Questa evoluzione si traduce nella necessità di avere in organico diverse figure professionali, come i coordinatori di ricerca clinica, infermieri di ricerca, biostatistici, esperti in revisione di budget e contratti. Alcune di queste figure sono richieste dalla normativa in vigore, ma è quasi impossibile ottenerne la stabilizzazione all’interno dell’organizzazione sanitaria. Né la figura del coordinatore di ricerca clinica né quella dell’infermiere di ricerca sono riconosciute a livello istituzionale, pertanto non vengono contemplate dai contratti della sanità pubblica e privata”.
In Italia il personale impiegato in ricerca e sviluppo (R&D) è inferiore alla media dell’Unione europea. Contiamo nel nostro paese 9 impiegati in R&D ogni mille unità di forza lavoro; sono invece 12 per mille in EU e 15 per mille in Germania. “Abbiamo una estrema difficoltà ad ottenere una continuità di prestazioni lavorative e assistiamo a una costante migrazione di personale esperto e qualificato verso aziende farmaceutiche e organizzazioni di ricerca a contratto”, sottolinea Vignetti di GIMEMA. “Questo crea un preoccupante gap professionale che rischia di compromettere l’efficienza e la qualità della ricerca, soprattutto quella di natura accademica. È indispensabile individuare, con l’aiuto delle istituzioni, un percorso legislativo per il riconoscimento di tali figure, stabilendo anche i requisiti minimi per i futuri coordinatori di ricerca clinica. Va inoltre attivato, in tempi rapidi, un sistema di formazione che consenta l’aggiornamento delle competenze di professionalità già presenti”.
Il gruppo di esperti che ha realizzato il documento chiede al più presto un incontro con le istituzioni. Un tavolo di discussione su tematiche tecniche con chi le affronta ogni giorno – tecnici, sperimentatori e gruppi rappresentativi della ricerca in Italia – per garantire il diritto alla ricerca clinica, non solo per gli scienziati, ma anche per i pazienti che partecipano agli studi e beneficiano dei risultati ottenuti.