Mangiare un pochino meno e fare più attività fisica durante la terapia per sconfiggere più velocemente la leucemia linfoblastica acuta. È quanto ipotizzato dagli scienziati del Children’s Hospital di Los Angeles, uno degli ospedali pediatrici più quotati della California.
Gli esperti hanno creato piani dietetici e di esercizio fisico personalizzati per 40 pazienti tra i 10 e i 21 anni con leucemia: cambiamenti modesti nell’alimentazione e nell’allenamento fisico già nel primo mese di chemioterapia potrebbero aumentare l’efficacia della cura. Di conseguenza, i bambini e gli adolescenti con chili di troppo, rischierebbero di avere meno successo contro la patologia.
Anna Maria Testi, ematologa dell’Università La Sapienza di Roma, ci aiuta a capire come mai: “L’obesità è sicuramente un fattore di rischio per una persona sottoposta a chemioterapia. Non solo perché il paziente obeso è più esposto a complicanze infettive, ma anche perché le cellule adipose, in abbondanza, e il metabolismo dei grassi possono influenzare l’efficacia dei farmaci chemioterapici”. Dopotutto, che uno stile di vita sano, soprattutto a tavola, sia un buon punto di partenza per affrontare una terapia, è condiviso dall’intera comunità scientifica.
I dati raccolti dai medici di Los Angeles sono promettenti: i piccoli pazienti che hanno ridotto il loro apporto calorico di almeno il 10% e hanno iniziato a fare attività fisica (seppur modesta) a partire dalla diagnosi avevano, in media, il 70% in meno di probabilità di avere cellule leucemiche residue nel midollo osseo dopo un mese di terapia.
E queste cellule, chiamate anche malattia residua minima, sono uno dei più forti indicatori di come sta andando la malattia: meno ce ne sono, meglio è. Tuttavia, c’è da capire quanto sia opportuno intervenire su bimbi o adolescenti che hanno appena ricevuto una diagnosi, nel primo mese di cura, quando tutto deve ancora essere compreso e metabolizzato.
“La maggiore riduzione della malattia dopo trenta giorni di cura è un segno prognostico positivo, però le prime settimane sono impegnative, sia fisicamente che psicologicamente”, precisa l’ematologa.
“All’inizio del trattamento i bambini possono avere conte piastriniche basse e alterazioni coagulative, quindi è difficile proporre loro di fare attività fisica. Inoltre, molti sviluppano un eccessivo appetito, perché il cortisone, attivo in questa patologia e sempre presente nel primo mese di terapia, stimola la fame. Anche dal punto di vista psicologico i piccoli hanno bisogno di qualche settimana per accettare la diagnosi e adattarsi alla nuova realtà”.
A basso costo e indipendente da altri medicinali, la soluzione proposta dallo studio californiano sarebbe un ottimo modo per aumentare l’efficacia della chemioterapia senza l’aggiunta di farmaci e dei loro potenziali effetti collaterali. Sono però necessari altre ricerche. E infatti pare che uno studio randomizzato più ampio sia previsto per la fine dell’anno, sempre al Children’s Hospital di Los Angeles. “L’idea avanzata in questo esperimento diventerà scienza quando ci sarà uno studio che confronta bambini con le stesse caratteristiche biologiche di malattia – conclude Testi – perché ci sono forme di leucemia linfoblastica acuta che dopo il primo mese di trattamento eliminano più facilmente le cellule leucemiche rispetto ad altre. Non tanto per merito di interventi esterni, come una dieta o un esercizio, quanto per caratteristiche biologiche della patologia. E questo va differenziato”.