Nonostante le preoccupazioni legate alle possibili complicazioni causate dal nuovo coronavirus, le procedure diagnostiche e terapeutiche sono continuate secondo la normale pratica clinica, valutando i singoli casi.
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La pandemia da COVID-19 ha in molti casi richiesto delle modifiche anche nella gestione clinica dei pazienti onco-ematologici, particolarmente fragili e più esposti al rischio di gravi complicanze. Sulla rivista Leukemia sono stati pubblicati, lo scorso luglio, i risultati di un’indagine svolta da un gruppo di lavoro GIMEMA che ha valutato se e come è cambiato il trattamento dei pazienti con neoplasie mieloproliferative (MPN) Philadelphia-negative durante l’emergenza.
All’indagine hanno partecipato 92 ematologi di 63 diversi centri italiani che hanno risposto a un questionario in forma anonima. I ricercatori GIMEMA hanno valutato come è stata gestita la somministrazione del farmaco Ruxolitinib, indicato per il trattamento delle MPN e di cui si sta valutando l’efficacia nelle infezioni da COVID-19.
Le neoplasie mieloproliferative Philadelphia-negative sono un sottogruppo di neoplasie mieloidi (un tipo di tumori del midollo osseo) caratterizzate dalla proliferazione incontrollata delle cellule staminali che danno origine ai globuli rossi, ai globuli bianchi e alle piastrine. Questo sottogruppo di patologie, comprendenti la policitemia vera (PV), la trombocitemia essenziale (TE) e la mielofibrosi (MF), sono caratterizzate da un maggiore rischio di trombosi, dall’aumento delle dimensioni della milza (organo che regola la produzione delle cellule del sangue) e da una ridotta sopravvivenza.
Inoltre, nella mielofibrosi e nella policitemia vera le infezioni rappresentano una complicanza frequente, dovuta a fattori correlati alla malattia e all’uso del Ruxolitinib.
“Il ruxolitinib è un farmaco con attività immunosoppressiva il cui utilizzo, soprattutto nella mielofibrosi, è stato associato a un aumentato rischio di infezioni, che sono per lo più batteriche e localizzate all’apparato respiratorio. In alcuni casi, si sono verificate infezioni atipiche e potenzialmente pericolose per la vita del paziente. Per questo ci sono preoccupazioni legate all’uso di questo farmaco nel corso di una pandemia virale”, spiega Francesca Palandri, dirigente medico dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria S. Orsola Malpighi di Bologna, che ha condotto l’indagine. “Eppure il Ruxolitinib, per la sua capacità di ridurre le citochine pro-infiammatorie, è stato proposto come terapia delle fasi avanzate dell’infezioni da coronavirus caratterizzate proprio da una iper-produzione di queste citochine, che sono le vere mediatrici del danno ai tessuti degli organi”.
I risultati del sondaggio hanno mostrato che durante l’emergenza non c’è stata una variazione delle normali procedure diagnostiche: il 93,5% degli intervistati ha continuato a fare le analisi per l’identificazione dei geni coinvolti, e il 73,9% ha eseguito normalmente la biopsia del midollo osseo.
“Il primo risultato che si può trarre da questo sondaggio è che, nonostante la pandemia, il processo diagnostico è stato portato avanti in modo abbastanza conforme alla normale pratica clinica e alle linee guida internazionali”, commenta Palandri.
Per quanto riguarda il trattamento, la maggior parte dei medici ha ritenuto opportuno non modificare le terapie già in atto.
L’inizio del Ruxolitinib è stato invece posticipato nel 17,4% dei pazienti con mielofibrosi e nel 28,6% dei pazienti con policitemia vera.
“I trattamenti sono tutti proseguiti come da prassi, e la maggior parte degli ematologi non ha modificato né la terapia citoriduttiva né quella con Ruxolitinib. Invece, una parte degli ematologi ha preferito non iniziare il trattamento con Ruxolitinib durante il periodo pandemico. Una scelta che ha riguardato soprattutto i pazienti con policitemia vera. La mielofibrosi ha un carico di malattia maggiore e ha fatto propendere di più i medici verso l’inizio della terapia. Quindi, al di là dei timori legati all’attività immunosoppressiva del Ruxolitinib, la maggior parte dei medici intervistati ha deciso di prescriverlo come da prassi, seguendo soprattutto l’indicazione terapeutica e quanto la malattia richiedesse un’urgenza”, conclude la dottoressa.