L’accostamento delle Good clinical practice (GCP o Norme di buona pratica clinica) a questa Giornata Mondiale dedicata alla sicurezza dei pazienti, che in Italia coincide con la giornata della sicurezza delle cure, potrebbe apparire, in prima battuta, molto singolare.
Ebbene, le GCP sono uno standard internazionale di etica e qualità scientifica nate per un fine: garantire la sicurezza dei pazienti attraverso la sicurezza delle cure praticate.

Le linee guida, difatti, hanno come ratio la necessità di armonizzare il processo di valutazione dei medicinali prima dell’immissione in commercio (e anche per una fase successiva), affinché esso sia identico e con le stesse garanzie in ogni parte del mondo. Non è un caso che tale processo abbia avuto come detonatore tragedie quali quella della talidomide, verificatasi in Europa negli anni ’60 e causata da una mal condotta sperimentazione clinica, caratterizzata soprattutto da insufficienti test tossicologici. Inoltre, nel corso di quegli anni gli approcci dei vari Paesi furono molto diversi e pertanto alcuni registrarono molte più vittime di altri.

Da qui anche la necessità di razionalizzare le procedure e creare dei processi standard capaci di accelerare la ricerca e di rendere disponibili nuovi trattamenti in diversi Paesi in tempi più brevi, evitando il duplicarsi di molte procedure di test dispendiose

Le cure, perché garantiscano la tutela del soggetto, debbono necessariamente essere scientificamente validate attraverso un processo di sperimentazione clinica. Le GCP disciplinano questo processo con l’obiettivo di proteggere i soggetti che vi partecipano producendo, al contempo, dati oggettivi ed affidabili, a tutela dei futuri pazienti che beneficeranno di quella terapia.

L’affidabilità dei dati rappresenta uno dei due principi cardine delle GCP, proprio per il loro fondamentale ruolo nella valutazione dell’efficacia di una terapia, ed è richiamata a tutela dei diritti del paziente dalla stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo che recita: “Non è un diritto dei pazienti quello di ricevere terapie che non hanno prove scientifiche”. *

Ma, alle volte, le GCP possono essere avvertite come qualcosa di avulso dalla realtà, di inapplicabile, di superfluo e di poco concreto, qualcosa che addirittura può rallentare una sperimentazione. Ma quando si individua il principio che sottende ad ognuna delle indicazioni si comprende immediatamente quanto ciascuna di queste regole sia indispensabile, quanto sia logica la loro applicazione e quanto discenda dai principi contenuti nella Dichiarazione di Helsinki e nel Codice di Norimberga.

Si potrebbe, quindi, avere la sensazione di essere in bilico tra le GCP e la realtà, tra la necessità di agire con tempestività o seguire qualcosa di (apparentemente) arido e sterile.

Invece, intendere le GCP come uno strumento di tutela del soggetto viene naturale se si pensa ad alcuni esempi del passato come l’olio di serpe e il siero di Bonifacio, ma… ahinoi, anche come la terapia “Di Bella”, caso ancora molto dibattuto della storia recente. Soltanto una sperimentazione clinica voluta dal Ministero della Salute fu in grado di stabilirne la reale inefficacia. Altro esempio, ancora più recente, è il cosiddetto Caso Stamina. Le cellule staminali utilizzate da Vannoni per trattare malattie neurodegenerative non curabili e/o inguaribili erano ottenute attraverso espianti dal midollo osseo ma, come spiegato dalla comunità scientifica su una delle più prestigiose riviste internazionali (Nature), molti dettagli del suo metodo rimasero ignoti (e lo sono ancor oggi) e il documento della ricerca clinica, che fu promossa per legge e finanziata dallo Stato per far luce sulla vicenda, fu secretato. Anche la sola analisi di questo aspetto denota la contravvenzione ai principi delle CGCP, secondo i quali la sperimentazione clinica deve essere dettagliatamente descritta in un documento (protocollo) per poi ricevere l’approvazione da parte dell’Autorità Competente e dei Comitati Etici prima di essere avviata.

Ciò contravviene anche al Codice deontologico che sancisce che “Nessuno di noi può praticare terapie segrete e non approvate dall’autorità regolatoria”

Il “Caso Stamina”, ha avuto profili giudiziari gravi, in quanto si è corso il rischio reale “…che una sedicente cura, il cui protocollo era secretato, di cui cioè non si conosceva la composizione, venisse introdotta nel Servizio Sanitario Nazionale, dopo essere stata somministrata a diversi pazienti a costi esorbitanti e senza che vi fosse la certificazione basata sull’evidenza scientifica. Una storia, quella di Stamina, che ha messo in discussione la concezione delle cosiddette cure compassionevoli, il rapporto fra scienza e salute, fra scienza e diritto, fra scienza ed etica, fra scienza e norma, e che impone al legislatore l’obbligo di deliberare in modo informato e alla comunità scientifica una nuova apertura alla divulgazione […].”**

In tale circostanza, “…le persone malate e le loro famiglie, sono state illuse da un cinismo senza speranza, lasciate troppo sole con la loro disperazione. Le malattie neurodegenerative oggi sono ancora in gran parte inguaribili, e spesso anche incurabili. La ricerca può fare molto per dare una speranza in più. Ma la ricerca vera, basata sulle evidenze scientifiche e sui risultati.” **

È chiaro, quindi, che l’adesione alle GCP si sovrappone alla qualità della ricerca clinica e, di conseguenza, alla protezione dei pazienti partecipanti e di coloro che ne beneficeranno nel futuro.

Pertanto, applicare le GCP non è una scelta tra il curare il paziente o dedicare tempo a qualcosa che tutto sommato può essere evitato. Applicare le GCP significa agire nella massima tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei pazienti con la consapevolezza che le risorse richieste rappresentano un minimo investimento rispetto al beneficio complessivo che tutti noi ne trarremo.

 

* Sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 28 Maggio 2014
**da Atti dell’indagine conoscitiva svolta dalla 12a commissione permanente del Senato (igiene e sanità)