L’emofilia è una patologia di cui ancora si conosce troppo poco nelle sue manifestazioni nelle donne. Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Medicine analizza i sintomi e le sfide del trattamento e dell’impatto psicosociale sulle donne sia nel ruolo di caregiver sia in quello di pazienti colpite dall’emofilia stessa.

Per decenni, l’emofilia è stata considerata una malattia “al maschile”. Ma cosa accade quando un dogma medico viene messo in discussione? Sempre più esperti evidenziano una realtà trascurata: le donne non solo possono essere portatrici, ma in alcuni casi sviluppano forme cliniche di emofilia, sfidando le convinzioni consolidate. La ricerca scientifica sta finalmente riconoscendo che anche le donne devono essere incluse nella narrazione dell’emofilia.

“Raggiungere l’equità di genere in una malattia storicamente considerata un problema solo maschile significa riconoscere e studiare i casi, per quanto rari, di malattia clinicamente evidente nelle donne”, afferma Roberta Gualtierotti, professoressa associata di Medicina Interna, all’Università degli studi di Milano – Centro emofilia e trombosi, referente Medicina di genere, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Un’affermazione che apre una nuova prospettiva su una patologia di cui ancora si conosce troppo poco nelle sue manifestazioni nelle donne. Spesso considerate solo portatrici, molte donne convivono con sintomi legati al difetto di coagulazione, senza avere una diagnosi chiara. Proprio su questo tema, Gualtierotti ha pubblicato un articolo scientifico sulla rivista scientifica Frontiers in Medicine nell’aprile 2024.

L’emofilia è un disturbo genetico ereditario legato al cromosoma X e si manifesta in due forme principali: l’emofilia A, causata dalla carenza del fattore VIII della coagulazione, e l’emofilia B, dovuta alla carenza del fattore IX.

Negli uomini, che hanno un solo cromosoma X, la malattia si manifesta inevitabilmente se ereditano il cromosoma difettoso dalla madre. Per le donne, la questione è più complessa. Grazie alla presenza di due cromosomi X, il gene sano può spesso compensare quello malato. Ma non sempre è così.

Esistono infatti casi, per quanto rari, in cui anche le donne manifestano sintomi gravi dell’emofilia. Sono donne che ereditano entrambi i geni affetti a causa di una consanguineità dei genitori o mutazioni cosiddette “de novo”, non presenti cioè nel resto della famiglia, ma comparse nel soggetto affetto, oppure a causa dell’inattivazione del gene sano. “Al di là di questi casi rarissimi, molte donne considerate solo portatrici sono in realtà affette da una forma lieve della malattia”, sottolinea Gualtierotti. Per queste donne, i livelli di fattori della coagulazione, pur non drammaticamente bassi come nelle forme rare, possono comunque comportare problemi significativi, come mestruazioni abbondanti, sanguinamenti post-parto ed emorragie post-traumatiche o in corso di interventi chirurgici.

Una delle sfide più grandi è il ritardo nella diagnosi. Poiché l’emofilia è stata tradizionalmente considerata una malattia maschile, molte donne non ricevono l’attenzione medica necessaria e scoprono di essere affette dalla malattia solo dopo episodi di sanguinamento significativo.

“Spesso le donne non vengono nemmeno prese in carico dai centri specialistici, perché la percezione della gravità della malattia è minore rispetto agli uomini”, sottolinea Gualtierotti.

Questa negligenza comporta un grave ritardo nell’accesso alle cure. Le donne portatrici, che spesso diventano le principali caregiver dei figli maschi emofilici, tendono a trascurare i propri sintomi. Eppure, anche loro possono necessitare di trattamenti salvavita, come le terapie sostitutive con fattori della coagulazione. Un altro aspetto delicato riguarda la gravidanza. Le donne portatrici di emofilia hanno il 50% di probabilità di trasmettere il gene affetto ai figli. Il momento del parto rappresenta una fase critica, in cui è necessario un monitoraggio attento per evitare complicanze emorragiche. Durante la gravidanza, il corpo femminile tende a compensare la carenza dei fattori della coagulazione, come nel caso del fattore VIII, ma questo equilibrio può rompersi durante e dopo il parto, con gravi rischi per la salute.

Nonostante i progressi nella comprensione della malattia, molto resta ancora da fare.

“È fondamentale includere anche le donne negli studi clinici e comprendere le differenze di genere nelle manifestazioni della malattia”, sostiene Gualtierotti. In passato, la ricerca medica ha spesso ignorato le donne, basandosi su standard maschili. Oggi, la medicina di genere sta cercando di cambiare questa mentalità, ma c’è ancora tanta strada da percorrere.

In conclusione, l’emofilia non è solo una malattia maschile. Le donne, troppo a lungo relegate al ruolo di portatrici silenti, meritano attenzione e cure adeguate. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e una ricerca più inclusiva, si potrà finalmente dare voce a chi, per anni, è rimasto invisibile nella lotta contro questa malattia rara.

 

L’articolo scientifico di Gualtierotti e colleghi si può leggere integralmente qui: https://doi.org/10.3389/fmed.2024.1345496

A proposito dell'autore