Una recente esperienza clinica condotta in pazienti con leucemia mieloide acuta trattati con inibitori di FLT3 registra alcuni vantaggi apportati da questa terapia, ma presenta anche numerosi aspetti da chiarire.

Somministrare un inibitore di FLT3 può migliorare la prognosi di alcuni pazienti con leucemia mieloide acuta (AML) che presentano la mutazione del gene FLT3. Lo mostrano i risultati di un recente studio pubblicato su Cancers, che ha analizzato e confrontato l’andamento clinico di circa 140 pazienti con AML con questa alterazione genetica, in cura presso l’Istituto di Ematologia dell’Ospedale Policlinico Umberto I di Roma, nel corso di 24 anni, dal 1999 al 2023.

Con il termine FLT3 ci si riferisce alla FMS-related tyrosine kinase 3, un enzima che nelle cellule sane porta all’attivazione di diverse vie segnaletiche importanti per promuovere la crescita e la differenziazione cellulare. Una mutazione di questo gene, però, può indurre a una sua eccessiva attivazione e favorire la progressione neoplastica di diversi tipi di tumore, compresa la AML.

È stato infatti calcolato che circa il 30% dei pazienti con AML presenta una mutazione di questo gene, che è spesso associata a un maggiore rischio di ricadute di malattia e, di conseguenza, ad una minore sopravvivenza.

Oggi la mutazione di FLT3 rientra tra le alterazioni genetiche analizzate alla diagnosi al fine di avviare specifici percorsi terapeutici. “Il ruolo prognostico di FLT3 è ampiamente riconosciuto nella letteratura scientifica”, commenta Saveria Capria del Policlinico Umberto I, prima autrice dello studio.

In Italia dal 2017 in poi sono entrati in commercio due medicinali in grado di inibire in modo mirato questo gene. Per i pazienti con AML e l’alterazione di FLT3, oggi è quindi disponibile la midostaurina da somministrare in combinazione alla chemioterapia convenzionale in prima linea, e il gilteritinib, utilizzato in monoterapia da solo per i pazienti con AML e nei casi in cui la malattia presenta le stesse caratteristiche biologiche che presentano però una malattia in recidiva o refrattaria. I ricercatori hanno confrontato i risultati dei pazienti che hanno ricevuto la sola chemioterapia standard con quelli che hanno ricevuto un inibitore di FLT3.

“Il lungo tempo di osservazione, di più di 20 anni, del nostro lavoro ha permesso di osservare alcune differenze tra coloro che sono stati trattati prima e dopo la commercializzazione di questi medicinali”, spiega Capria. Queste differenze sono state rilevate sia nei pazienti trattati in prima linea che in quelli che non avevano risposto al primo trattamento, nella maggior parte dei quali è stato comunque possibile eseguire successivamente il trapianto allogenico di cellule staminali.

“In generale è stato registrato un vantaggio in termini di sopravvivenza mediana per i pazienti che hanno ricevuto l’inibitore di FLT3, ma sono tanti gli aspetti ancora da approfondire”, afferma Capria.

Tra questi, nei prossimi anni bisognerà comprendere come utilizzare al meglio gli inibitori di FLT3 che sono ora disponibili in commercio, identificare i migliori candidati da avviare al trapianto allogenico di cellule staminali e individuare in modo mirato i pazienti che possono trarre beneficio da una terapia di mantenimento con l’inibitore di FLT3 dopo il trapianto.

 

L’articolo originale, pubblicato su Cancers, è disponibile a questo link: https://doi.org/10.3390/cancers16162864