I risultati preliminari di un ampio studio che confronta nel tempo le risposte molecolari da inibitori tirosin-chinasici e la sospensione del trattamento mostrano le criticità e i punti di forza di questo approccio terapeutico.

Per un paziente con leucemia mieloide cronica, raggiungere una risposta molecolare profonda e sostenuta nel tempo dopo la terapia con inibitori tirosin-chinasici significa poter prevenire la possibile progressione del tumore e interrompere la terapia (in inglese Treatment Free Remission, TFR) con un notevole miglioramento della qualità di vita. Il gruppo di ricerca GIMEMA sta conducendo uno studio che confronta come varia nel tempo la risposta molecolare di diverse terapie. I risultati preliminari del progetto sono stati presentati lo scorso giugno al congresso dell’European Hematology Association (EHA) a Madrid, in Spagna.

Lo studio ha coinvolto quasi 1800 pazienti con leucemia mieloide cronica trattati con gli inibitori tirosin-chinasici imatinib, dasatinib e nilotinib. La loro risposta molecolare (Molecular Response, MR), ossia malattia residua rilevabile a livello molecolare, è stata registrata ogni tre mesi per un anno. Per riunire e coordinare i dati di un gruppo di partecipanti così ampio, il gruppo di ricerca si è servito della piattaforma LabNET CML. “Questo strumento offre ai centri di ricerca specializzati in questo tipo di tumore la possibilità di svolgere test di biologia molecolare standardizzati, e permette ai pazienti di svolgere test specifici e ottimali senza doversi spostare,” spiega Massimo Breccia, professore associato presso l’Università La Sapienza di Roma che ha partecipato allo studio: “Attualmente alla rete partecipano 51 laboratori e 120 centri ematologici in Italia”.

In genere, la risposta molecolare tende ad aumentare col proseguire della terapia, passando da MR2 e MR3 fino a MR4 e MR4.5, questi ultimi due indici di una risposta molecolare profonda e quindi la presenza della malattia in una forma residua minima.

I primi risultati dello studio hanno così mostrato, che la percentuale di pazienti che raggiungono la MR4 cresce nel tempo e in modo diverso a seconda del farmaco assunto. Per esempio, a 12 mesi dall’inizio del trattamento, questa risposta è presente nel 22% dei casi trattati con imatinib e nel 38% e 40% di chi ha assunto rispettivamente il nilotinib e il dasatinib. In seguito, confrontando i risultati dei pazienti in diversi intervalli di tempo, i ricercatori hanno individuato che le risposte molecolari più basse possono indicare la possibilità di svilupparne una profonda in un secondo momento. Ancora più della MR2, sembra che un paziente che presenta una MR3 a tre mesi abbia maggiori probabilità di andare incontro a una risposta molecolare profonda nel giro di un anno e quindi di interrompere la terapia.

Tuttavia, dallo studio emerge anche che più della metà dei pazienti che hanno sospeso la terapia dopo aver raggiunto una risposta molecolare profonda, hanno perso questa condizione.

“Le perdite segnalano quanto sia necessario monitorare di continuo lo stato dei pazienti,” commenta Massimo Breccia. “Tali esiti sono un monito anche per i clinici, affinché continuino a seguire il paziente col passare del tempo, ricordando l’importanza di assumere la terapia.”

Anche se al momento questi risultati non sono ancora conclusivi e dovranno essere confermati al termine dello studio, “indicano come siano necessarie strategie diverse per ottenere un maggior numero di pazienti candidabili alla sospensione,” conclude il ricercatore.