La terapia col protocollo Berlino-Francoforte-Munster (BFM) associata all’anticorpo monoclonale rituximab ha consentito di migliorare notevolmente i risultati, ma il contributo del trapianto autologo rimane incerto. I risultati di 15 anni di esperienza pubblicati sulla rivista The Oncologist.

Il paradosso dei linfomi è che più sono aggressivi, più rispondono bene ai trattamenti che spesso sono risolutivi. È il caso del linfoma di Burkitt, un raro linfoma non-Hodgkin a cellule B. È stato identificato nella sua forma endemica in Africa orientale, dove la malaria favorisce l’infezione del virus oncogeno Epstein-Barr. In questo Paese colpisce prevalentemente i bambini con tipica localizzazione a livello del massiccio facciale; nel mondo è più frequente la variante “sporadica” e quella associata a immunodeficienze, che coinvolgono tipicamente l’addome e che colpiscono soprattutto gli adulti.

“Questo linfoma è la neoplasia più aggressiva che esista perché cresce con una rapidità che è spaventosa. Aumentando di volume così rapidamente talvolta può dare un interessamento addominale di tipo occlusivo o anche di tipo perforativo” – spiega Alessandro Broccoli, ricercatore presso l’IRCCS di Bologna e primo autore dello studio retrospettivo pubblicato sulla rivista The Oncologist che documenta l’efficacia di 15 anni di trattamenti (dal 2004 al 2020) che hanno coinvolto 50 pazienti. “Eppure il linfoma di Burkitt è una malattia da cui è molto probabile riuscire a guarire con le terapie adeguate”.

I pazienti dello studio condotto da Broccoli e colleghi avevano una età compresa da 16 ai 72 anni, con una mediana, alla diagnosi, di 38 anni. Nell’80% dei casi il linfoma era al III o al IV stadio. Ogni paziente ha ricevuto la chemioterapia secondo il protocollo Berlino-Francoforte-Munster (BFM). Si tratta di un protocollo intensivo, inizialmente sviluppato in ambito pediatrico per la leucemia linfoblastica acuta a cellule B mature, ma che può essere traslato nei pazienti adulti. In particolare, spiega Broccoli, nell’età adulta il protocollo è stato tarato sulla base dell’età del paziente in modo da ridurre gli effetti tossici, terapia-correlati che, a parità di dose, sono più accentuati nei pazienti anziani:

“L’individuazione, sulla base dell’età, dei dosaggi differenti è stata una carta vincente. Ci permette di trattare i giovani, ma anche sottoporre i più anziani a un trattamento che è adeguatamente intensivo”.

Insieme alla chemioterapia è stato anche somministrato il rituximab, un anticorpo monoclonale che potenzia gli effetti della chemioterapia. Il rituximab, spiega Broccoli, ha come bersaglio l’antigene CD20, che è presente sulla cellula B del linfoma di Burkitt e altri linfomi.

I risultati presentati sono stati infatti molto positivi. Nonostante i molti pazienti si presentavano all’esordio della malattia, in stadio avanzato, a 10 anni dal trattamento, la sopravvivenza complessiva è stata dell’83,7%, la sopravvivenza libera da progressione del 76%, la sopravvivenza libera da malattia del 80,3%. I ricercatori, inoltre, non hanno rilevato differenze significative nei diversi gruppi di età.

Dopo la chemioterapia e il rituximab, il 72% dei pazienti ha ricevuto un autotrapianto di cellule staminali (ASCT) ematopoietiche, se l’età e le condizioni cliniche erano valutate idonee per la procedura. L’obiettivo della procedura era quello di consolidare la risposta ottenuta. Tuttavia, ad oggi, non ci sono ancora solide prove dell’efficacia del trapianto autologo in questo contesto, e lo studio di Bologna non fa eccezione. Come spiega Broccoli lo studio non è uno studio randomizzato, quindi sull’efficacia del trapianto non può essere molto informativo. I ricercatori hanno però visto che non c’è differenza nelle curve di sopravvivenza tra i pazienti che hanno ricevuto il trapianto e quelli che non l’hanno ricevuto.

Come si legge nel lavoro “L’ASCT non sembra migliorare l’andamento dei pazienti a lungo termine e il suo utilizzo dovrebbe essere limitato a casi selezionati, se non omesso del tutto.”

Nello studio, i ricercatori ricordano che non esiste ancora un trattamento standard nella terapia del linfoma di Burkitt, ma Broccoli specifica che di certo esiste una “famiglia” di terapie efficaci tra cui in particolare, il metotrexate, la citarabina, le antracicline ei farmaci alchilanti, utilizzati nel protocollo che hanno ricevuto i pazienti in studio.

Spiega il ricercatore:

“Quello che abbiamo voluto dimostrare è che nelle nostre mani il protocollo BFM con il rituximab è uno schema terapeutico maneggevole che ha dato risultati soddisfacenti. Non è l’unico, ma dopo più di 15 anni di lavoro per noi è uno ‘standard’, e tutti i nostri pazienti affetti da Linfoma di Burkitt continueranno ad essere trattati con questo schema terapeutico”.

“Possiamo senza dubbio affermare che di linfoma di Burkitt si guarisce, e si guarisce nella maggior parte dei casi. Purtroppo rimane ancora un 20% di pazienti dove la malattia esordisce o progredisce in maniera talmente violenta e tale da impedire di portare avanti adeguatamente il trattamento. Purtroppo non esiste una terapia di salvataggio valida nei casi di progressione o ricaduta di malattia”, conclude Broccoli.

 

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L’articolo scientifico, pubblicato su The Oncologist, è disponibile a questo link:

https://doi.org/10.1093/oncolo/oyae017