Un recente studio ha preso in analisi i dati provenienti dai centri di cura dell’anemia falciforme a livello nazionale, mettendoli in relazione alle linee guida AIEOP del 2012.
La sindrome toracica acuta (acute chest syndrome – ACS) è una delle cause più frequenti di ricovero per i pazienti affetti dall’anemia falciforme (detta anche malattia a cellule falciformi o drepanocitosi), soprattutto in età pediatrica. L’incidenza di questa sindrome in Italia è aumentata negli ultimi 15 anni, ma ad oggi mancano dati a livello nazionale sull’epidemiologia, gli esiti e la gestione generale della patologia.
Nel 2012 l’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (AIEOP) ha rilasciato delle linee guida ben definite per il trattamento di questa complicanza acuta in età pediatrica, che se non adeguatamente contrastata, può portare anche ad esiti fatali: antibiotici per la gestione delle infezioni, integrazione di ossigeno e trasfusione di globuli rossi (RBC) per aumentare l’apporto di ossigeno, somministrazione di broncodilatatori, spirometria incentivante e cure di supporto. In un recente studio, pubblicato sul British Journal of Haematology, un gruppo di ricerca ha cercato di valutare il livello di aderenza di queste linee guida a livello nazionale, valutando al contempo l’epidemiologia e le caratteristiche dell’anemia falciforme nel nostro Sistema sanitario nazionale in cui l’assistenza pediatrica per le malattie rare è organizzata secondo un modello definito come hub-and-spoke (nel quale spesso i centri AIEOP di emato-oncologia pediatrica costituiscono gli hub mentre i reparti pediatrici ospedalieri, gli spoke).
Nel complesso, l’aderenza alle linee guida che è stata riscontrata era buona o molto buona per alcune raccomandazioni come l’ospedalizzazione in caso di sindrome toracica acuta (99,5%), il ricorso alla radiografia per la diagnostica (98%) e la somministrazione della terapia antibiotica (99%).
L’aderenza ad altre raccomandazioni, come ad esempio la trasfusione di globuli rossi, l’emocoltura e la spirometria incentivante (che incoraggia la respirazione profonda e previene le complicanze polmonari), era invece decisamente più bassa.
“Le ragioni possono essere diverse – commenta Raffaella Colombatti, coordinatrice del gruppo di lavoro AIEOP e professore associato di Pediatria presso l’Università degli Studi di Padova – ma dobbiamo prendere atto del fatto che, nonostante i tanti eventi formativi effettuati come gruppo di lavoro, alcune linee guida non siano ancora state recepite correttamente. Lo spirometro incentivante, ad esempio, viene spesso sottovalutato, quando in realtà si tratta di un esercizio di meccanica respiratoria che migliora molto la respirazione del paziente. Si tratta forse di un discorso culturale (in quanto il paziente svolge l’esercizio in autonomia, senza controllo medico o infermieristico), forse logistico (legato al fatto che lo strumento non sia così facile da procurare). Un altro fattore che potrebbe spiegare la scarsa aderenza ad alcune linee guida è che spesso l’ematologo non segue in prima persona il giovane paziente, che è ricoverato in un reparto di pediatria generale”.
Inoltre, lo studio ha evidenziato discrepanze significative nella gestione tra i centri di riferimento (con personale specializzato in emoglobinopatie) e gli ospedali generali: i pazienti seguiti in questi ultimi hanno infatti ricevuto cure subottimali in varie misure, tra cui l’uso di analgesici e oppioidi (necessaria per una gestione del dolore associato alla crisi vaso occlusiva tipica della sindrome toracica acuta), e la tempistica della terapia antibiotica:
“Abbiamo osservato una grande differenza tra i grandi centri, in cui l’inizio della terapia antibiotica è immediata – spiega Colombatti – e centri medio/piccoli, in cui avviene dopo 24-28 ore. Un’altra differenza è che nei centri piccoli si fa più ricorso a una trasfusione “semplice”, mentre nei grandi centri si effettua l’eritrocitoaferesi”.
I risultati di questo studio sottolineano dunque l’urgenza di migliorare l’assistenza pediatrica per i pazienti affetti da anemia falciforme negli ospedali italiani, analogamente a quanto accade per altre malattie rare, migliorando innanzitutto la collaborazione e il supporto da parte dei centri di riferimento della rete. “Il modello hub and spoke in generale è efficace – conclude Colombatti – ma nelle patologie rare è difficile trasferire tutte le conoscenze attualmente disponibili, anche a causa del forte turnover che spesso caratterizza le strutture sanitarie. Per alcune patologie, però, questo sforzo è fondamentale perché conoscere il ventaglio di opzioni terapeutiche a disposizione permette di attuare gli approcci più efficaci. Non tutti devono fare tutto, ma è importante sapere chi fa cosa, strutturando al meglio il flusso delle diverse attività e, ove necessario, il trasferimento dei pazienti verso i centri di riferimento”.
La ricerca, in lingua inglese, è disponibile a questo link.