La relazione realizzata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) spiega l’impatto che avrà l’ingente flusso di fondi proveniente dall’Europa nelle casse italiane, specialmente nel settore della ricerca e sviluppo, ma non solo.
“Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) l’Italia ha il più grande bilancio per ricerca e sviluppo, addirittura più alto di quello della Germania: 17 miliardi. È un’occasione unica per far fare all’Italia un salto”, commenta così Daniele Archibugi, direttore f.f. dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS) del CNR e uno dei coordinatori della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia del 2021.
17 miliardi corrispondono al 7,5% del budget totale, con circa 10 miliardi per la ricerca applicata e sviluppo sperimentale e 4 miliardi per la ricerca di base. Le risorse rimanenti verranno impiegate per azioni trasversali e di supporto (1,88 miliardi) e trasferimento tecnologico (380 milioni).
Per quanto riguarda il terzo settore, il PNRR offre un’importante opportunità: sono previsti oltre 11 miliardi per la “missione 5”. Il settore è coinvolto sia nella missione 5 sia nella missione 6 del PNRR, anche se gli ambiti in cui sono coinvolte le associazioni no profit spaziano molto.
PNRR e terzo settore
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (NGEU), oltre 700 miliardi di euro che l’Unione Europea mette a disposizione dei paesi membri in risposta alla crisi pandemica. La principale componente del programma NGEU è il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza (Recovery and Resilience Facility, RRF) lanciato nel 2021, e che avrà termine nel 2026. Questo strumento si divide in “Missioni”, e in particolare la missione 5 (Sociale) e la missione 6 (Salute) sono quelle che toccano da vicino il terzo settore. Alla missione 5 saranno complessivamente destinati 22,4 miliardi di euro, di cui 19,8 miliardi provenienti dal Dispositivo per la Ripresa e Resilienza e 2,6 miliardi dal Fondo Complementare, istituito dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Alla missione 6, invece, il PNRR destina 15,63 miliardi di euro e di questi fondi, 1,45 miliardi saranno indirizzati a servizi sociali, disabilità e marginalità sociale, e 9,02 miliardi a rigenerazione urbana e housing sociale. Il piano fa poi riferimento alla necessità di integrazione sociosanitaria con i servizi sociali e alle Case di comunità: a questo sono dedicati 2 miliardi di euro. Citata anche l’assistenza domiciliare (4 miliardi) e 1 miliardo è dedicato agli Ospedali di comunità.
Uno sguardo attento agli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sottolinea tre priorità trasversali a tutte le sue componenti: il contrasto alle discriminazioni di genere, l’accrescimento delle competenze, della capacità e delle prospettive occupazionali dei giovani, il riequilibrio territoriale e lo sviluppo del Mezzogiorno. Un focus particolare viene posto sul tasso occupazionale delle donne, messe a dura prova dal periodo pandemico. Il PNRR vuole quindi essere occasione per garantire la parità di accesso al lavoro, alle cure sanitarie e alle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics).
Per i giovani sono previste detrazioni fiscali ed è sostenuto il servizio civile universale come servizio alla comunità e come crescita personale, investendo risorse su base pluriennale. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, il PNRR costituisce un’occasione per la ripresa: tra il 2008 e il 2018 la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno si è più che dimezzata ed è passata da 21 a poco più di 10 miliardi. Il PNRR vuole invertire questa tendenza.
La relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia
Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) spiega l’impatto che avrà questo ingente flusso di denaro nelle casse italiane, specialmente nel settore della ricerca e sviluppo, ma non solo.
La “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia – Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia” è opera di un gruppo di lavoro di diversi Istituti del CNR e, oltre a rendicontare i prossimi finanziamenti del PNRR, offre una panoramica completa della ricerca italiana pubblica e privata.
“Questa è una fotografia puntuale, che si deve ripetere ogni anno poiché uno dei nostri compiti come ente pubblico di ricerca è anche di cercare di servire il nostro paese e tutto il sistema di ricerca”, afferma Maria Chiara Carrozza, presidente del CNR, prima donna a ricoprire questo ruolo.
Il rapporto del CNR si approccia al PNRR con un duplice sguardo: “Da una parte il CNR, con il proprio respiro multidisciplinare, può direttamente svolgere progetti di ricerca e sviluppo (R&S), dall’altro può contribuire al disegno e alla gestione di strumenti di finanziamento, mediando tra governo e comunità dei ricercatori, dalle organizzazioni scientifiche e dalle imprese”, spiega la presidente.
La relazione dipinge un quadro preoccupante per quanto riguarda il numero di dottori di ricerca. Solo lo 0,5% della popolazione in età lavorativa in Italia ha il dottorato di ricerca, contro l’1,2% della media europea. Secondo il CNR, il numero di persone che consegue il titolo, circa 10 mila studenti l’anno, va decisamente aumentato. Chi possiede un dottorato di ricerca ha un tasso di occupazione pari al 93,5%, ma meno della metà ritiene di sfruttare pienamente le conoscenze acquisite nel mercato del lavoro. Un ulteriore deficit che sottolinea il report del CNR è la scarsezza dei dottori di ricerca nel settore industriale. Al fine di aumentarne il numero è stata introdotto un nuovo titolo: il dottorato industriale. In questo nuovo percorso accademico lo studente svolge parte del suo percorso in azienda, guidato da tutor aziendali e universitari.
Ricerca e gender gap
Fra i temi trattati dalla relazione c’è quello del gender gap nella ricerca, ovvero le differenze sociali e lavorative fra maschi e femmine nei diversi ambiti della ricerca. La quota di donne in questo settore rappresenta più della metà dei dottori di ricerca. Tuttavia, si riscontra una forte disuguaglianza in quanto gli uomini coprono il circa 60% dei posti nelle così dette STEM. Preoccupante anche il divario salariale nelle scienze mediche, dove gli uomini, dopo 6 anni dal conseguimento del titolo, guadagnano circa 704 euro in più delle donne.
A tal riguardo Maria Chiara Carrozza afferma: “Il confronto salariale a 6 anni dal conseguimento del dottorato mette in evidenza una differenza di genere inaccettabile. Il dottorato e la disruptive innovation per la ricerca possono cambiare anche l’organizzazione delle imprese”. Con disruptive innovation si intendono tutte quelle innovazioni capaci di rivoluzionare il funzionamento di un mercato o di un settore, ponendo fine a quel determinato tipo di mercato e alla sua rete di valori, sostituendo aziende, prodotti e alleanze leader del mercato stesso. Applicato alla ricerca, significa cambiare il paradigma che regge la ricerca stessa e stimolare studi che creano nuovi prodotti da immettere sul mercato. Quali azioni concrete potrebbero portare un così radicale cambiamento?
Uno sguardo all’educazione
L’educazione terziaria assume nuove caratteristiche e assolve a diversi compiti che vanno dalla formazione universitaria fino allo sviluppo di nuove competenze. Gli investimenti nell’istruzione terziaria rimangono largamente insufficienti per assicurare al nostro Paese un adeguato livello di competitività. Nel 2016 i livelli di scolarizzazione terziaria in Italia risultavano tra i più bassi rispetto alla media dei paesi europei: la quota di laureati nella fascia di età 30-34 anni era pari al 26% della popolazione contro una media europea del 39% (dati Eurostat 2017).
Le rilevazioni del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca relative alle immatricolazioni hanno fatto registrare un calo degli iscritti dell’8% tra il 2000 e il 2015, tendenza parzialmente rovesciata nel corso del 2016, quando si è registrato un aumento delle iscrizioni del 4,9% rispetto al precedente anno accademico. Secondo la relazione del 2016 di Banca d’Italia, il calo delle immatricolazioni risulta più accentuato nelle aree meridionali e tra i diplomati tecnici e professionali e ha riguardato in particolar modo giovani provenienti da contesti familiari economicamente e socialmente meno favoriti.
Le risorse umane impiegate nella ricerca e sviluppo (R&S)
Una classifica dei settori ordinati per numero di personale e per spesa nella R&S mostra una fotografia preoccupante per il terzo settore: il settore delle imprese è quello che raccoglie il maggior numero di personale addetto alla R&S. In particolare, dalla seconda metà degli anni Duemila, le imprese hanno assorbito tra il 48% e il 53% del totale dei ricercatori. Le università hanno assorbito circa un terzo dei soggetti e continuano con questo andamento stabilmente dal 2007. Le istituzioni pubbliche rappresentano poco più di un sesto del totale per numero di personale addetto alla R&S. Il privato non-profit riveste un ruolo marginale: dopo una tendenza al rialzo fino a metà degli anni Duemila, si è attestato sulle circa 7.000 unità.
Per quanto riguarda la spesa nella ricerca e sviluppo, dal 2000 al 2015 l’unico settore che presenta una decisa ripresa dopo il 2004 è quello delle imprese. Al contrario le risorse totali per le università e per le altre istituzioni pubbliche hanno avuto un andamento stagnante, col primo settore che presenta leggeri aumenti nel 2002, nel 2008 e nel 2014. Un dato allarmante che necessita di un contraccolpo nell’avanzamento tecnologico di tutti i settori, specialmente nel no-profit.
Le opportunità per il terzo settore
Per le associazioni del terzo settore sarà importante approfittare delle occasioni che il PNRR offre, sfruttando al meglio gli investimenti proposti. A tal proposito riportiamo di seguito i bandi attivi al momento, consultabili anche sul sito di Cantiere terzo settore.
I bandi sono i seguenti, divisi per missione (M1, M4, M5), riguardano:
M1. Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo